Quale sicurezza? Il costo climatico delle guerre8 min read
Reading Time: 6 minutesLa crisi climatica è valutata come uno dei principali acceleratori di instabilità geopolitica e finanziaria per i prossimi decenni; al contempo, guerre e produzione di armamenti accelerano, e con con loro le emissioni e il surriscaldamento globale.
Negli ultimi tre anni la guerra in Ucraina prima, con la conseguente crisi energetica e la corsa agli idrocarburi, e il genocidio a Gaza poi, hanno spostato l’attenzione europea e globale dalla transizione energetica alla guerra e al riarmo. Ma investire nella difesa e nella sicurezza a discapito della transizione potrebbe essere un errore di valutazione e di strategia dal prezzo molto alto. I dati disponibili, pur resi pubblici con il contagocce, rilevano una situazione allarmante.
La guerra accelera il cambiamento climatico
I dati sulle emissioni di gas a effetto serra provocati dalle guerre non sono pubblici. Le forze armate, infatti, non sono obbligate a rendicontare le loro emissioni alle Nazioni Unite. Se i dati sono almeno in parte noti, è grazie al lavoro di gruppi di ricerca indipendenti che da anni raccolgono i numeri e li verificano. Secondo le ultime analisi disponibili, datate 2022, le forze militari globali rappresentano circa il 5,5% delle emissioni mondiali di gas serra, una quota superiore all’aviazione civile o al trasporto marittimo. Uno studio di quest’anno del gruppo indipendente Scientists for Global Responsibility segnala che ogni incremento di spesa militare pari a 100 miliardi di dollari corrisponde a emissioni aggiuntive dell’ordine di 32 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente. Per dare concretezza a questi numeri: il riarmo della Germania da 1.000 miliardi di euro genererebbe emissioni pari a quelle prodotte dal nostro Paese in un anno.
Le informazioni disponibili relative ai conflitti in corso sono allarmanti. La guerra in Ucraina, ad esempio, secondo un report di Initiative on GHG Accounting of War, ha generato in tre anni circa 230 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente, pari alle emissioni annuali di Austria, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia insieme. Oltre all’uso diretto di combustibili per i mezzi militari, importanti emissioni derivano dalla distruzione di impianti energetici, raffinerie, depositi di combustibile e dagli incendi di massa su vaste aree di territorio agricolo e forestale. Nel conflitto tra Israele e Gaza, un rapporto rivela che i primi 15 mesi di guerra hanno prodotto un’impronta di circa 31 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente solo per le attività di distruzione, sgombero delle macerie e ricostruzione. Parallelamente, vasti incendi, distruzione di terreni agricoli e delle zone naturali hanno ridotto la capacità degli ecosistemi di fungere da serbatoio di carbonio, aggravando il riscaldamento globale. Due anni di guerra a Gaza hanno infatti dimostrato in maniera drammatica come l’ambiente e le risorse naturali diventino al tempo stesso bersaglio e strumento di guerra. Secondo la FAO, al 28 luglio 2025 l’86% dei terreni agricoli della Striscia risultava distrutto; dei circa 15.000 ettari coltivati prima del conflitto, ne rimangono 2.090, e soltanto 232 sono oggi accessibili e lavorabili in sicurezza – meno dell’1,5% della superficie totale. L’80% della popolazione vive in condizioni di emergenza alimentare e un terzo affronta una situazione definita “catastrofica”. Secondo il diritto internazionale, dati di questa portata configurano un possibile caso di ecocidio: atti intenzionali che causano danni gravi, estesi e duraturi agli ecosistemi, compromettendo la sopravvivenza umana.
Industria bellica, riarmo e transizione verde: le contraddizioni evidenti
I danni ambientali e climatici vanno però ben oltre le emissioni provocate da esplosioni, distruzione degli ecosistemi e inquinamento di lungo termine del suolo e dell’acqua: la produzione stessa di armamenti ha un impatto climatico enorme. Navi da guerra, aerei da combattimento e carri armati dipendono interamente dai combustibili fossili, mentre la produzione di equipaggiamenti militari richiede materiali ad alta intensità di emissioni come acciaio, alluminio e terre rare.
In questo senso, l’aumento delle spese militari degli ultimi anni, culminato con la decisione NATO di alzare il target di spesa al 5% del PIL entro il 2035, rappresenta una vittoria del potere delle corporation e del capitale fossile: tra i finanziatori delle aziende produttrici di armi – le cosiddette big five negli Stati Uniti (Lockheed Martin, Boeing, General Dynamics, RTX e Northrop Grumman) e in Europa (BAE Systems, Airbus, Leonardo, Thales e Rheinmetall) — ci sono proprio le aziende di combustibili fossili. Ma anche il sistema finanziario gioca un ruolo cruciale: banche d’investimento, fondi pensione e istituzioni pubbliche partecipano al finanziamento diretto o indiretto della produzione di armi, alimentando così un’economia di guerra globale. Nel caso di Israele, ad esempio, l’emissione dei cosiddetti Israel Bonds – o War Bonds – consente al governo di raccogliere capitali sui mercati internazionali per sostenere la spesa militare, con la partecipazione di istituti e fondi di investimento di diversi Paesi.
L’evidente contraddizione tra gli impegni globali per la decarbonizzazione e il business degli armamenti sembra evidente alla stessa industria bellica, che da qualche anno prova a legittimare le spese militari come sostenibili: è il militarismo green, l’ultima tendenza del greenwashing. Così alcune forze armate cercano di legittimare parte delle operazioni come compatibili con gli obiettivi climatici, ad esempio utilizzando basi con energia da fonti rinnovabili o mezzi che riducono l’uso di carburanti fossili.
Ma è evidente che, anche provando a lasciare in secondo piano le opportune considerazioni etiche, l’attuale riarmo –europeo e globale, sostenuto in modo aggressivo dalla presidenza Trump e oggi appoggiato da un ampio consenso bipartisan negli Stati Uniti, che da soli concentrano circa il 40% delle esportazioni mondiali di armamenti e influenzano le strategie dei Paesi alleati – mina alla radice il successo della transizione energetica ed ecologica. Un recente studio accademico ha analizzato nel dettaglio questa dinamica: l’espansione delle spese militari tende a generare un aumento delle emissioni totali e una riduzione dell’efficienza delle attività produttive, oltre a ridurre gli investimenti in tecnologie pulite e innovazioni verdi. In altri termini, la spesa per la difesa compete con le risorse che potrebbero essere destinate a fonti rinnovabili, ricerca e infrastrutture resilienti. E sì che basterebbe una frazione delle risorse destinate alla guerra per finanziare l’azione climatica necessaria: secondo l’ONU, una riduzione del 15% dell’attuale spesa militare mondiale, pari alla cifra record di 2,7 trilioni di dollari (dati 2024), libererebbe risorse sufficienti per finanziare l’adattamento climatico nei Paesi in via di sviluppo.
La crisi climatica sta aumentando l’instabilità geopolitica mondiale
Nel medio e lungo termine, il riarmo invocato e sempre più finanziato per fare fronte alla crescente instabilità geopolitica, potrebbe risultare una strategia inefficace. Se non si riuscirà a frenare l’attuale tendenza del riscaldamento globale, i conflitti per assicurarsi le risorse chiave – acqua, suolo coltivabile, aree abitabili del pianeta – aumenteranno inevitabilmente. Le alterazioni climatiche – siccità, ondate di calore estreme, inondazioni, riduzione delle risorse idriche e agricole – genereranno pressioni sempre più forti su popolazioni vulnerabili, spingendo migrazioni forzate, competizione per le risorse e condizioni di vulnerabilità sociale. Ignorare la dimensione climatico-ambientale può significare prepararsi a conflitti futuri con costi economici, sociali e ambientali molto più elevati.
Verso un approccio integrato: clima e pace
Una visione strategica più ampia suggerisce che transizione ecologica e sicurezza internazionale non siano obiettivi contrapposti, ma aspetti della stessa questione. Investire in energie rinnovabili, infrastrutture resilienti, agricoltura sostenibile e cooperazione internazionale significa ridurre le vulnerabilità che alimentano instabilità e conflitti. Agire sulle cause profonde delle crisi – povertà, disuguaglianze, scarsità di risorse – è una forma di prevenzione più efficace e duratura rispetto all’aumento degli arsenali. La Banca Mondiale ha stimato che un sistema efficace di prevenzione dei conflitti potrebbe generare risparmi economici compresi tra 5 e 70 miliardi di dollari l’anno, anche negli scenari più pessimisti. Del resto, oltre vent’anni di studi hanno dimostrato che povertà, disuguaglianze e mancanza di opportunità economiche sono tra i principali fattori che aumentano il rischio di guerra. Un famoso studio di Frances Stewart del 2002 aveva già evidenziato come per ridurre la probabilità di conflitti sia essenziale promuovere uno sviluppo inclusivo, ridurre le disuguaglianze tra gruppi, affrontare la disoccupazione e, attraverso il controllo nazionale e internazionale dei commerci illeciti, ridurre gli incentivi privati alla violenza.
Il primo passo necessario è garantire trasparenza sui dati relativi all’impatto climatico e ambientale delle guerre e degli arsenali e promuovere un dibattito pubblico informato sulle connessioni tra crisi climatica, sicurezza e spesa militare. Solo una discussione basata su informazioni accessibili e verificabili può orientare le scelte politiche verso una visione coerente e di lungo periodo, capace di bilanciare obiettivi ambientali, sociali ed economici.
In questo contesto, il caso italiano offre un esempio concreto delle contraddizioni in gioco. Nell’allegato del Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) si riconosce che il tasso di povertà assoluta, oggi all’8,4%, rimarrà stabile fino al 2028 e che le disuguaglianze sociali non subiranno variazioni significative.
Dati recenti delineano un quadro di crescente vulnerabilità: il definanziamento del Servizio sanitario nazionale ha portato il 10% della popolazione a rinunciare alle cure; il rischio idrogeologico è aumentato del 15%, interessando ormai il 23% del territorio nazionale; la dispersione scolastica resta al 9,8%, tra i valori più alti in Europa.
Nonostante ciò, la spesa militare continua a crescere. Secondo l’Osservatorio sulle Spese Militari Italiane (Milex), i programmi di investimento previsti per i prossimi quindici anni superano i 130 miliardi di euro per nuovi sistemi d’arma, a cui si aggiungono 9 miliardi per infrastrutture militari e 23 miliardi nel triennio indicato dal Dpfp (+3,5 miliardi nel 2026, +7 nel 2027, +12 nel 2028).
È una scelta che riflette una concezione di sicurezza centrata sulla dimensione militare, a discapito di quella sociale e ambientale.
Riconsiderare la relazione tra pace, clima e coesione sociale significa, oggi, interrogarsi su quali siano le priorità reali per il futuro. Integrare la dimensione climatica e quella sociale nelle politiche di sicurezza è una condizione necessaria per costruire stabilità duratura e ridurre le cause dei conflitti futuri.
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Per approfondire il tema degli armamenti puoi ascoltare l’episodio 10 del nostro podcast Ventitrenta.
[Foto in evidenza di Mahmoud Sulaiman su Unsplash]





