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Cosmopolitismo o élite cosmopolita?

cosmopolitismo
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@kevinalle

Poco più di dieci anni fa il sociologo americano George Ritzer pubblicava il testo The McDonaldization of Society, individuando nell’omologazione sociale una delle conseguenze del fenomeno della globalizzazione.

Altri pensatori hanno evidenziato come la diffusione dell’ideale del cosmopolitismo abbia contribuito al processo di omologazione. Più che di un ideale si tratta in realtà di un’attitudine, di un modus vivendi per cui si è propensi a considerare sé stessi e gli altri come cittadini del mondo, liberi dalle pregresse appartenenze geografiche o culturali, aperti ad incontrarsi reciprocamente, a confrontarsi come esseri umani, a considerare ciascun individuo sulla base del rispettivo valore, senza preconcetti legati all’identità nazionale o culturale.

Considerato in questi termini il cosmopolitismo potrebbe essere interpretato come “the bright side of globalization”. Sembrerebbe trattarsi infatti di una sorta di “omologazione in positivo”, eppure qualcosa in questa promettente e armoniosa sinfonia stride alle orecchie di chi si mette ben in ascolto.

La domanda che ci poniamo è: possiamo davvero essere tutti cittadini del mondo? Siamo sicuri che questo status non implichi prerequisiti indispensabili senza i quali questo ideale è destinato a restare tale?

Forse corriamo il rischio che la favoletta dei cittadini-del-mondo-tutti-uguali-e-tutti-felici, in apparenza serafica e includente, si riveli in realtà un’ulteriore linea di confine tra chi è dentro e chi è fuori.

Due sono infatti le ineludibili prerogative del cosmopolita, o dell’aspirante tale: un certo grado di istruzione (mediamente elevato) e la disponibilità di risorse economiche (mediamente elevate). La prima perché garantisce la facoltà intellettuale di astrarsi dalla propria realtà contingente e la seconda perché consente la possibilità concreta di muoversi nel mondo e sperimentare praticamente la propria cittadinanza globale.

La risposta alla domanda se tutti possiamo essere cittadini del mondo è dunque un secco NO. Ci rendiamo conto che, sebbene il concetto di cosmopolitismo abbatta le barriere di appartenenza geografica, esso rischi di innalzarne altre, non meno invalicabili, tra classi sociali.

Forse l’esperienza cosmopolita, per quanto innegabilmente amabile, si addice solo ad un ristretto target di popolazione. Questa illuminata apertura mentale mostra quindi un’evidente cecità rispetto ai limiti materiali della maggior parte della popolazione mondiale. Non è dunque poco realista continuare a raccontarsi la favola accantivante e naif del cosmopolitismo?

Finché non si dedicherà la dovuta attenzione alle politiche sociali per l’istruzione e la riduzione delle disuguaglianze, il concetto di cosmopolitismo resterà associato a un privilegio concesso a pochi. Ecco allora che, in maniera decisamente meno affascinante ma finalmente realista, i cittadini del mondo si rivelano nella loro natura di ristretta élite cosmopolita.

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