Cos’è il cambiamento climatico e che impatto ha sulla natura e sulle nostre vite10 min read

10 Gennaio 2020 Ambiente -

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Naturalista, cambiamenti climatici

Cos’è il cambiamento climatico e che impatto ha sulla natura e sulle nostre vite10 min read

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Il cambiamento climatico non ha confini. Non gli importa chi tu sia: ricco, povero, piccolo o grande. Questa è quella che chiamiamo una sfida globale. E per affrontarla, è necessaria una risposta globale.

A dirlo è Ban Ki-moon, ex Segretario Generale delle Nazioni Unite che, come molti altri esperti della comunità internazionale, siano essi politici o scienziati, ha descritto il cambiamento climatico come la più importante, ed inascoltata, sfida globale del millennio.

Ma che cos’è il cambiamento climatico?

cos'è il cambiamento climatico
Alluvione in una città in Messico | Foto: Huitzil via climatevisuals

Innanzitutto è una realtà i cui impatti influenzano sempre più la nostra quotidianità. Per definirlo, invece, partiamo dall’etimologia: il termine “clima” deriva dal latino clima-ătis e dal greco κλίμα -ματος (klima-climatos derivante, a sua volta, da κλίνω, o klino) che significa piegare, inclinare.

Si fa riferimento quindi all’inclinazione della terra dall’equatore ai poli e, di conseguenza, all’inclinazione dei raggi solari che incidono sulla superficie terrestre in corrispondenza del variare della latitudine. Per questo a ciascuna fascia climatica-latitudinale della Terra corrispondono caratteristiche fisico-ambientali diverse in termini di flora e fauna, i cosiddetti biomi (tundra, taiga, deserti ecc.).

In climatologia, secondo la definizione ufficiale fornita dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale, il termine clima indica lo stato medio del tempo atmosferico a varie scale spaziali (locale, regionale, nazionale, continentale, emisferico o globale) rilevato nell’arco di almeno 30 anni.

Pertanto, pur mantenendo una costante variabilità stagionale, i fattori che influenzano il clima (latitudine, albedo, altitudine…) sono da sempre in lento e continuo mutamento, evidenza alla quale si sono spesso rifatti i cosiddetti negazionisti o comunque tutti coloro che negli sconvolgimenti che stiamo vivendo hanno voluto vedere non un fenomeno che abbiamo contribuito a creare bensì una temporanea e naturale evoluzione del sistema climatico.

La storia del cambiamento climatico così come lo intendiamo in questo articolo, invece, risale all’epoca della Rivoluzione industriale quando l’uomo entra a gamba tesa nel sistema clima aumentandone la velocità di cambiamento e contribuendo al riscaldamento globale.

Cambiamento climatico e riscaldamento globale: facciamo chiarezza

Va fatta a questo punto una precisazione sulla differenza tra cambiamento climatico e riscaldamento globale. Il termine riscaldamento globale o global warming fa riferimento all’aumento di temperatura a lungo termine del sistema climatico terrestre osservato a partire da periodo preindustriale (tra il 1850 e il 1900) e causato dalle attività antropiche, in primo luogo dai combustibili fossili, che hanno determinato un aumento dei livelli di gas ad effetto serra intrappolati in atmosfera.

Nonostante la definizione venga spesso usata come sinonimo di cambiamento climatico, in realtà quest’ultimo farebbe invece riferimento sia ai cambiamenti naturali che a quelli antropici e viene misurato come l’incremento medio della temperatura della superficie terrestre.

Definizione, questa, sposata anche dal Pannello Intergovernativo sui Cambiamenti Climatici (IPCC – Intergovernmental Panel on Climate Change), l’organismo intergovernativo delle Nazioni Unite, fondato nel 1988 dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale e dal Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente, per fornire alla comunità internazionale e ai decisori politici conoscenze sempre aggiornate ed attendibili.

La Convenzione Quadro delle Nazione Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC – United Nations Framework Convention on Climate Change), invece, definisce i cambiamenti climatici come l’insieme dei cambiamenti del clima attribuibili direttamente, o indirettamente, alle attività umane e che alterano la composizione dell’atmosfera in aggiunta alla variabilità climatica naturale osservabile su di un medesimo lasso temporale.

La Convenzione è uno dei risultati della Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite (UNCED – United Nations Conference on Environment and Development), informalmente conosciuta come Summit della Terra, tenutasi a Rio de Janeiro nel 1992. L’accordo, aperto alla ratifica il 9 maggio 1992, entra in vigore il 21 marzo 1994 con l’obiettivo di stabilizzare le concentrazioni atmosferiche dei gas serra ad un livello tale da prevenire interferenze antropogeniche pericolose con il sistema climatico terrestre.

Cosa sappiamo dei cambiamenti climatici e dei loro impatti

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Una donna Masai nel Lago Magadi, in Kenya, lago salato che potrebbe scomparire entro 15 anni a causa del cambiamento climatico | Foto: David Macharia via climatevisuals

A partire dalla Rivoluzione industriale, la temperatura è aumentata di circa 1,5°C e l’ha fatto con sempre maggiore rapidità. Il perché questa è accaduto va fatto risalire all’aumento del numero e della quantità dei gas serra in atmosfera.

Quando i raggi del sole attraversano l’atmosfera, infatti, scaldano la superficie terrestre. Il calore si irradia sotto forma di radiazioni infrarosse di cui circa il 30% si perde nello spazio mentre il restante 70% viene assorbito dai gas serra.

Questi ultimi agiscono come pannelli di vetro in una serra intrappolando il calore e riflettendolo nuovamente sulla superficie terrestre. Dunque, contrariamente a quanto molti pensano, l’effetto serra è fondamentale alla sopravvivenza della vita sulla Terra perché senza di esso le condizioni del nostro pianeta, in particolare le temperature, sarebbero incompatibili con la vita.

Il problema nasce quando la concentrazione di questi gas, in particolare di anidride carbonica (CO2), aumenta facendo a sua volta crescere la quantità di calore intrappolato e riflesso. Per dare un’idea più chiara dell’ampiezza del fenomeno, basti pensare che negli ultimi 50 anni si è passati da una concentrazione di CO2 pari a 310 ppmv (parti per milione in volume) a 380 ppmv, che rappresenta il valore più alto mai raggiunto negli ultimi 400 mila anni e che ha già causato un aumento di temperatura di circa 1°C. E tutto in solo mezzo secolo.

A fare ulteriore chiarezza, e a fornire dati aggiornati, ci ha pensato l’IPCC che, nell’ottobre del 2018, e su richiesta degli stati membri della Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici nel corso della Conferenza tenutasi a Parigi – dalla quale è emerso l’omonimo accordo che chiede azioni finalizzate a mantenere l’aumento della temperatura al di sotto di 1,5°C – ha realizzato un Rapporto Speciale sugli impatti del riscaldamento globale di 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, con riferimento agli andamenti di emissioni di gas ad effetto serra.

Al report, che contiene più di seimila riferimenti bibliografici ed è considerato come la più importante pubblicazione scientifica degli ultimi anni, hanno contribuito 91 autori di 44 nazionalità diverse, tutti uniti nel ribadire quanto il cambiamento climatico sia inequivocabile e come la responsabilità sia di origine antropica.

Gli impatti del cambiamento climatico sono già davanti ai nostri occhi: aumento del livello del mare, aumento o diminuzione – a seconda della regione – delle precipitazioni, eventi estremi sempre più forti e frequenti, acidificazione degli oceani e aumento delle zone anossiche (prive di ossigeno) con conseguente scomparsa di molte specie animali e vegetali, diffusione di malattie vettoriali, diminuzione dei ghiacciai.

Un elenco sicuramente non esaustivo e fatto di impatti che, in sé, ne contengono e comportano di ulteriori, a sottolineare come in natura ogni elemento sia indissolubilmente legato ad un altro e come un effetto provochi sempre episodi a cascata.

Questi impatti, poi, non hanno preferenze geografiche né sociali e non riguardano, pertanto, solo i popoli più vulnerabili. Dai dati della Commissione Europea, infatti, si evince come nella sola Europa si registrino ondate di calore, incendi forestali e siccità sempre più frequenti. Il Mediterraneo si sta trasformando in una regione arida e le città, nelle quali vivono oggi 4 europei su 5, sono sempre più esposte a ondate di calore, alluvioni, innalzamento del livello dei mari ed erosione costiera.

In Europa, tra il 1980 e il 2011 le alluvioni hanno colpito più di 5,5 milioni di persone e provocato perdite economiche dirette per oltre 90 miliardi di euro. I settori che dipendono fortemente da determinate temperature e livelli di precipitazioni come l’agricoltura, la silvicoltura, l’energia e il turismo, sono particolarmente colpiti e richiedono risposte urgenti.

Senza considerare, poi, l’impatto sulla salute umana. Un recente studio di Lancet ha messo in relazione la salute umana ed il cambiamento climatico, evidenziando l’andamento di 41 indicatori in cinque ambiti diversi: gli impatti, l‘esposizione e la vulnerabilità umana di fronte al cambiamento climatico; le strategie di adattamento in campo sanitario; le misure di mitigazione e i benefici per salute; le ricadute economico-finanziarie; l’impegno pubblico e politico.

Secondo il report, rispetto all’anno 2000, nel solo 2017 sono aumentate di 157 milioni le persone esposte alle ondate di calore. L’Europa è particolarmente a rischio perché più del 40% della sua popolazione ha un’età superiore ai 65 anni, la fascia di età più colpita dalle conseguenze del caldo anomalo – e questo rappresenta la più efficace ed urgente chiamata all’azione che potessimo ricevere.

Cosa possiamo fare per limitare l’aumento della temperatura a 1,5°C?

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Una strada a Melbourne, Australia | Foto: Jes via climatevisuals

Il rapporto dell’IPCC elenca e spiega le conseguenze del cambiamento climatico i cui impatti potrebbero essere parzialmente ridotti se l’aumento di temperatura fosse limitato ad 1,5°C anziché 2°C, soglia considerata per molto tempo il limite da non superare per evitare impatti devastanti sul sistema climatico.

Tra questi, l’innalzamento del livello del mare al 2100 che sarebbe inferiore del 50% rispetto al peggiore dei due scenari, mentre se si arrivasse a +2 °C, il livello del mare salirebbe di 10 cm entro il 2100.

Oppure, la probabilità di scioglimento dei ghiacciai in Artico durante l’estate, che ricorrerebbe una volta ogni secolo anziché una ogni decennio o, ancora, la riduzione del 70-90% della barriera corallina anziché la sua totale scomparsa e la perdita di 3 milioni di tonnellate di pesce in meno a causa dell’acidificazione degli oceani, nonché le conseguenze per gli animali, come gli insetti, la cui minaccia di estinzione di dimezzerebbe, o per le coltivazioni, con raccolti meno difficili e più nutrienti.

I prossimi 10 anni, a quanto si evince dalla pubblicazione, rappresenteranno la chiave di volta del futuro: se le emissioni continueranno al ritmo attuale, l’innalzamento di 1,5°C sarà raggiunto entro il 2040. Secondo quanto specificato dall’IPCC, per evitarlo sarà necessario ridurre le emissioni globali nette di CO2 di circa il 45% entro il 2030, raggiungendo lo “zero netto” intorno al 2050, oltre ad attuare cambiamenti lungimiranti, rapidi e senza precedenti nei settori portanti dell’economia mondiale: uso del suolo, energia, industria, edilizia, trasporti e pianificazione urbana.

Riuscirci è ancora possibile ma è necessario lavorare congiuntamente sia a livello internazionale, creando una commistione di intenti tra la necessità di combattere il cambiamento climatico e raggiungere almeno una parte degli Obiettivi Sostenibili del Millennio, che a livello locale ed individuale.

Perché, come ricordò Al Gore, quella ambientale e climatica è una rivoluzione e in quanto tale richiede prima di tutto un impegno dal basso. La scienza si è assunta l’impegno morale di informare l’umanità che siamo di fronte ad un’emergenza climatica ed è pronta ad uscire dai laboratori per spiegarne rischi, minacce e soluzioni.

Tra queste, prima di tutto, viene enunciato un radicale cambiamento del nostro stile di vita quotidiano: “la crisi climatica – si legge in una lettera aperta pubblicata su BioScience e firmata da 11 mila scienziati di tutto il mondo – è strettamente legata ad un consumo eccessivo legato ad uno stile di vita agiato”.

Il cambiamento non deve più essere visto come un’impresa impossibile, faticosa, dispendiosa e riservata a pochi eletti. Mangiare meno carne, limitare l’uso della plastica, prediligere l’acqua del rubinetto piuttosto che quella in bottiglia, scegliere la bicicletta piuttosto che l’automobile, rinunciare alla cannuccia in un cocktail, spegnere la luce quando non serve, sono azioni talmente basilari da risultare quasi banali. Iniziamo dunque da qui, da una fondamentale banalità.


Il cambiamento climatico comporta, tra le altre cose, la perdita di biodiversità e l’alterazione degli ecosistemi; il connesso riscaldamento globale impatta soprattutto sulle città. Per ridurre l’impatto dei cambiamenti climatici dobbiamo progettare città resilienti, dove crescere comunità resilienti.

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Politologa, naturalista e viaggiatrice. Si occupa di gestione di progetti incentrati sul cambiamento climatico e la sostenibilità. Analizza e racconta il rapporto tra uomo e natura nell'Antropocene e studia il conflitto tra uomo e fauna selvatica, per poi dare vita a progetti e strategie di comunicazione e coinvolgimento dei cittadini finalizzate a dimostrare che “noi siamo natura”.
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