Cosa sta succedendo in Burundi?6 min read

27 Giugno 2015 Politica -

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Cooperante

Cosa sta succedendo in Burundi?6 min read

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cosa sta succedendo in burundi

“Certo che mi ha fatto piacere raccontarti cosa sta succedendo in Burundi, il mio paese, ma per favore non scrivere il mio nome. Le mie sorelle sono scappate in Ruanda ma mia madre e mio fratello hanno deciso di rimanere a Bujumbura e sai che raccontandoti queste cose metto a rischio la mia famiglia”.

Basta una frase così per dare l’idea di cosa sta succedendo in Burundi. S. ha già avuto parenti e famigliari uccisi nel corso della burrascosa storia del suo paese. Paese piccolissimo (27.830 Kmq) situato nella regione dei Grandi Laghi (Africa orientale), il Burundi è tra i paesi più poveri del mondo, con un indice di sviluppo umano che lo posiziona al 180esimo posto (su 187 paesi).

Riguarda proprio il Burundi il Racconto di Cooperazione di questo mese, curato dall’Associazione Mekané. Raccontare la cooperazione vuol dire anche raccontare paesi e situazioni con l’occhio esperto di chi ne conosce da vicino le vicende e, soprattutto, le persone.

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Cosa è successo in Burundi fino al 2015

Colonia tedesca prima (1885-1919) e belga poi (dopo la prima guerra mondiale), il Burundi ha ottenuto l’indipendenza nel 1962. Da allora il paese è continuamente teatro di tensioni tra la minoranza tutsi (dominante e più ricca) e la maggioranza hutu. La violenza etnica ha raggiunto il culmine nel 1994 facendo del Burundi (e soprattutto del Ruanda) la scena di uno dei conflitti più difficili d’Africa.

Prima della colonizzazione si poteva passare da un gruppo ad un altro e ci si poteva sposare tra gruppi diversi. La differenza era prevalentemente di tipo sociale: i Tutsi (più alti e snelli) erano più ricchi degli Hutu (più bassi e tozzi). Queste distinzioni però non erano né rigide né definitive, e chiunque poteva migliorare la propria condizione sociale.

I colonizzatori belgi fecero l’errore di considerare questi gruppi come delle divisioni razziali, avviando un processo degenerativo molto rigido: non fu più possibile cambiare gruppo e non erano permessi i matrimoni misti. I Tutsi divennero i ricchi al potere, gli Hutu i poveri che dovevano subire tutto.

Già prima dell’indipendenza formale, nel 1961, Louis Rwagasore, figlio del re Mwambutsa IV, fu assassinato. Il re, di etnia tutsi, aveva sposato una donna di etnia hutu per, si dice, smorzare il conflitto etnico che, da quel momento, divenne ancora più intenso. Il capitano tutsi Michel Mocombero prese il potere nel 1966, proclamando la nascita della repubblica e instaurando una dittatura militare durata dieci anni.

Da qui in avanti è tutto un susseguirsi di colpi di stato. Il primo, nel 1972, si concluse con una carneficina: circa 200 mila Hutu furono uccisi dalla dittatura militare per rappresaglia ad un attacco al potere sferrato dagli Hutu stessi. Mocombero fu poi destituito da un suo cugino, il colonnello Jean-Baptiste Bagaza, con un sanguinoso colpo di stato nel 1976. Bagaza è diventato famoso per il cosiddetto genocidio intellettuale, vietando agli Hutu di accedere alle scuole superiori.

Un altro parente, il maggiore Pierre Buyoya prese il potere nel 1987 con l’ennesimo colpo di stato. Buyoya, su pressione internazionale, avviò un processo di democratizzazione, che portò nel 1993 alle prime libere elezioni presidenziali della storia del paese, vinte dall’hutu Melchior Ndadaye del Frodebu (Fronte per la Democrazia in Burundi). Con il nuovo governo si arrivò anche alla firma di accordi di pace tra Hutu e Tutsi.

Tuttavia l’idillio tra il Burundi e la democrazia durò molto poco. Nello stesso anno delle sue elezioni Ndadaye fu assassinato e l’esercito, sempre controllato dai Tutsi, provò a riprendere il potere. Il Frodebu tuttavia riuscì a riprendere il controllo della situazione e ad eleggere nel 1994 un nuovo presidente, Cyprien Ntaryamire.

Nello stesso anno tuttavia il neo presidente del Burundi e il presidente del Ruanda morirono in un attentato aereo. Questo evento segnò l’inizio del genocidio in Ruanda e l’intensificazione delle lotte armate tra Hutu e Tutsi in Burundi, che non raggiunsero comunque i livelli di violenza registrati in Ruanda.

Di nuovo il Frodebu riesce immediatamente a riorganizzarsi ed eleggere un nuovo presidente, Sylvestre Ntibantungaya, in un clima però sempre più complicato, che culmina nel colpo di stato del 1996 che riporta al potere il maggiore Buyoya.

Il nostro rimane in carica fino al 2003, quando viene firmato un cessate il fuoco tra il suo governo e il Conseil National pour la Défense de la Démocratie-Forces pour la défense de la démocratie (CNDD-FDD), cha raccoglie la maggioranza degli Hutu. Dall’accordo resta fuori il Front National de Libération (FNL), l’ala più estremista dei ribelli hutu. A seguito dell’accordo il Frodebu ritorna al potere, con il suo leader Domitien Ndayizeye.

Dal 2004 è inoltre attiva nel paese la missione Onu United Nations Operation in Burundi (UNOB), con l’obiettivo di supportare i processi di democratizzazione definiti negli accordi. L’operazione porta alla realizzazione di nuove elezioni democratiche nel febbraio 2005, vinte dal leader del partito CNDD-FDD Pierre Nkurunziza.

Gli accordi stabilivano anche che la composizione delle istituzioni dovesse essere equamente ripartita fra Hutu e Tutsi, e che il mandato presidenziale fosse quinquennale e rinnovabile una sola volta. Tuttavia questi accordi rimarranno solo sulla carta. Il presidente Nkurunziza si rivela inadeguato, è coinvolto in numerosi scandali e il suo modo di governare fa pensare più a una dittatura che a una democrazia.

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Cosa sta succedendo in Burundi nel 2015

Il 26 aprile 2015 Nkurunziza dichiara di volersi ricandidare per un secondo mandato e nel paese scoppiano una serie di disordini. Il 12 maggio il presidente è in Tanzania per una riunione della EAC (Comunità dei paesi dell’Africa dell’Est) e i vertici militari si riuniscono a Bujumbura, approfittando della sua assenza, per organizzare un colpo di stato.

Si verifica però una frattura interna all’esercito e il Capo di Stato Maggiore si dimostra leale al presidente, vanificando il tentativo di due generali, uno tutsi e uno hutu. La situazione tuttavia diventa incandescente: il governo adotta una linea fortemente repressiva, la polizia spara sulla folla e rastrella i villaggi, i cittadini sospettati di aver appoggiato il colpo di stato vengono arrestati e torturati, e viene impedita ogni forma di assembramento e manifestazione.

La popolazione burundese inizia a fuggire nei paesi vicini, soprattutto Ruanda e Tanzania. Se durante la fuga vengono intercettati dalla polizia, i profughi rischiano di essere rapiti, torturati e uccisi. Per questo ormai molti sono rinchiusi nelle proprie case. Scuole e università sono chiuse da aprile. L’inflazione galoppa, e anche le Ong internazionali stanno bloccando progetti e finanziamenti.

In questo clima lunedì 29 giugno si svolgeranno le elezioni legislative. La cooperazione belga, che aveva un progetto di monitoraggio del voto, ha fatto rimpatriare il suo staff. Troppo pericoloso.

S. crede che nessuno andrà a votare. Si dice però che la Commission Electorale Nationale Indépendante (l’organismo che si occupa delle elezioni) abbia già in mano le percentuali che attribuirà ai diversi partiti al fine di confermare la vittoria di Nkurunziza.

L’unica speranza del paese, mi dice ancora S., è l’intervento degli organismi internazionali (Nazioni Unite, Unione Europea o il tribunale dei diritti umani).

Alla popolazione non è rimasto che fischiare. Da ormai due settimane tutti i giorni alle 12.30 e alle 19.00, in concomitanza con i maggiori notiziari radiofonici nazionali, la popolazione inizia a fischiare e a fare rumore. Lo fanno tutti, uomini, donne e bambini. È il loro modo per far capire al presidente, grande appassionato di calcio, che è arrivato il fischio finale, che la partita è finita, che i burundesi non si lasceranno battere. Come mi racconta ancora S.:

“Una cosa positiva il presidente Nkurunziza l’ha fatta: abbiamo trovato una cosa che ci accomuna tutti, Hutu e Tutsi si sono trovati d‘accordo sul fatto che il problema non è la razza ma il presidente stesso!”.

Immagini | Eugenia Pisani

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Ha un Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale ed è co-fondatrice di Mekané - ideas for development. Dal 2016 vive e lavora in Senegal dove si occupa di progettazione, gestione e valutazione di progetti di sviluppo.
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