Contatto3 min read

8 Agosto 2017 Società -

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contatto

Voglio solo andarmene contento, nella sicurezza di aver parlato con qualcuno, e che qualcosa sia successo.

Stefano Dal Bianco

Ho conosciuto Mario con una canzone: Un amore così grande di Claudio Villa, Sanremo 1984. Fu lui a chiamarmi, mentre camminavo tra i tavoli bianchi di plastica della mensa della Caritas di Ponte Casilino di Roma. Non lo fece né con un fischio, né con un saluto, un cenno o uno sguardo per farmi avvicinare.

Mi guardava da lontano muovermi e io me ne accorsi. Quando fui più vicina mi indicò di abbassarmi e mi chiese: “tu lo conosci Claudio Villa?”. Io ripetevo nella mia testa: “Claudio Villa sì, cantava quella canzone che faceva…faceva, eh!”. “Siediti che ci penso io a insegnarti come gira il mondo!”. Sorrisi e mi sedetti. Avevamo stabilito un contatto.

Mario era un uomo dalle gambe forti, pantaloni di tessuto pesante blu, il colletto di una camicia a quadri bianca e celeste che si intravedeva dal maglione grigio, che di storie doveva averne viste tante quante lui. Dopo il test sulla canzone, al quale fui bocciata in pieno, non passai neppure la prova età. Gliene avrei dati al massimo settanta, eppure con un tono squillante e fiero mi disse: “ottanta!”.

Fu con quel rimprovero sulla musica e con un racconto sulla guerra che con commozione oggi ricordo il mio incontro con Mario.

Mi raccontò entusiasta della sua famiglia: i suoi otto fratelli, cinque figli e dieci nipoti, le loro date di nascita e i segni zodiacali quasi fosse l’unico modo di presentarli agli occhi di una sconosciuta, che si era seduta senza un vero motivo.

Per il suo compleanno sperava ancora in una riunione di famiglia, la stessa che lo aveva abbandonato in un appartamento di Rebibbia da cui fuggiva ogni giorno alla ricerca di un posto caldo dove sentirsi protetto, lontano da una casa che profumava ancora troppo di sua moglie.

Aspettava ogni giorno una telefonata che non arrivava mai e quel compleanno lo festeggiò nella mensa della Caritas, con gli operatori e i volontari. Di lui ricordo bene il suo accento genuino, quello che a Roma oggi è parlato solo da una minoranza di persone anziane, dalla battuta sempre pronta, con il petto brizzolato che si intravede da una canottiera di lana bianca, al collo una croce d’oro e un ciondolo che ritrae Francesco Totti.

Quella sera Mario mi salutò e s’incamminò a piedi verso casa, dall’altra parte di Roma. Prima però mi fece pronunciare una promessa. Vedete, nessuno vuole morire da solo e gli uomini, molto spesso dimenticano cosa significa restare umani e abbandonano, dimenticano, maturano un senso di egoismo tale che non riescono più a distinguere quali sono le cose importanti e preziose. La famiglia, il rispetto, il contatto.

Contatto. Una parola che si compone e si addiziona. Contatto è una carezza, una parola, un gesto da lontano, come quello di Mario, per richiamare la mia attenzione. Contatto è quella promessa che mi fece pronunciare; è una stretta di mano, un sorriso voltando le spalle con la consapevolezza che tante delle cose che viviamo sono uniche e irripetibili.

Con tatto significa: delicatezza, sensibilità, è una voce che ti sussurra: non perdere il tuo istinto primario, innato e sorprendentemente potente, la tua empatia, la tua accortezza nell’agire, resta umile e vivi con dignità. Con(tatto): non pensare mai di essere un’isola.

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Da piccola amava ricalcare terre e mari su fogli di carta lucida e veder emergere paesi sotto la matita. Immaginava di incontrare le persone che abitavano quei luoghi e inventava una lingua per comunicarci. Oggi studia le lingue, ama tradurre, qualche volta scrive, lavora come operatrice in un centro di prima accoglienza di Roma.
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