Considerate i bambini5 min read

11 Maggio 2020 Società -

Considerate i bambini5 min read

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In un recente intervento a una radio francese Michel Houellebecq profetizza che una volta terminata l’emergenza sanitaria il mondo sarà uguale a prima, anzi forse un po’ peggiore.

Dopo le prime settimane di “andrà tutto bene” e di pensieri positivi sulle rigeneranti e catartiche virtù del lockdown che hanno occupato una buona parte dei mass media e della rete, sono emerse anche le prime considerazioni dai toni più cupi e pessimisti.

Come altri, lo scrittore ritiene che il virus abbia accelerato dei mutamenti tecnologici e sociali già in atto, conducendo l’Occidente verso un orizzonte disumanizzante e pure un po’ cinico. Trovare tracce di questa presunta tendenza è un compito al momento difficile da affrontare, ma in Italia un peggioramento tangibile riguarda le modalità con cui nel discorso pubblico si fa (o meglio, non si fa) riferimento ai bambini.

bambini coronavirus

La prova di moralità di una società risiede in quello che essa fa per i suoi bambini.

Disse il teologo tedesco Dietrich Bonhoeffer. Bene, in questo momento temo che non supereremmo una simile prova di moralità.

Quella che riguarda i bambini è un’emergenza nell’emergenza. La frequenza ad asili, scuole e a qualsiasi altra attività sportiva, ricreativa, culturale è stata – legittimamente e giustamente – sospesa, mentre sulle famiglie, tradizionali attori-chiave del welfare italiano, ricadono crescenti responsabilità.

A subire ancor più una situazione caratterizzata dall’interruzione di alcuni servizi sono i bambini le cui famiglie vivono condizioni di svantaggio sociale ed economico. Il rischio della riproduzione e moltiplicazione delle disuguaglianze è concreto e anche le pur imprescindibili modalità di didattica a distanza, se calate in contesti di digital divide, possono contribuire a segnare ancor più le disparità tra nuclei familiari.

L’impossibilità a frequentare i contesti dell’apprendimento e del gioco, poi, è solo parzialmente compensata dalle iniziative online che educatori, insegnanti e volontari stanno portando avanti per proseguire un percorso iniziato mesi o anni fa, alimentare le relazioni, supportare i genitori, fronteggiare le solitudini. Iniziative meritevoli, ma un po’ troppo scoordinate tra loro e dipendenti dalle sensibilità dei singoli professionisti, più che vere e proprie azioni di sistema.

Ci si aspetterebbe, da parte di chi amministra e governa le istituzioni, un’attenzione particolare verso queste fasce sociali, non tanto in termini di allentamento delle necessarie misure restrittive o non solo in termini di sostegni economici.

Ci si aspetterebbe, da parte delle diverse cariche di Stato, Regioni e Comuni, un segnale di empatia e di vicinanza a quanti stanno trascorrendo questi mesi senza gli adeguati supporti e con un aggravio di incombenze domestiche, lavorative, educative, didattiche.

Ci si aspetterebbe, dagli enti preposti, l’adozione in tempi utili di politiche che sappiano prospettare un piano, se non di graduali riaperture, di gestione delle criticità quotidiane che famiglie e bambini si trovano ad affrontare, tra smart working e scuole e asili chiusi, tra tempi di vita via via più confusi e disuguaglianze sociali pronte ad ampliarsi.

Complessivamente, nei sette DPCM e nei sei Decreti legge che si sono succeduti dal 23 febbraio 2020 in poi, la parola “bambina/o/i” compare tre volte: per stabilire la chiusura delle aree gioco, per normare l’apertura dei negozi di articoli per l’infanzia e per esonerare i più piccoli dai dispositivi di protezione individuale.

“Minore/i” compare due volte: per stabilire le misure restrittive negli istituti penali per minorenni e per avviare il cosiddetto bonus baby-sitter. Tutte menzioni necessarie e fondamentali per affrontare la pandemia e ridurre i contagi ma la scarsa presenza, se non addirittura l’invisibilità, dei bambini dentro questi testi e più in generale nel discorso pubblico, destano più di qualche preoccupazione.

Se non atti e decisioni, che sappiamo essere complessi da compiere e in questo momento fondati su poche certezze, sarebbero auspicabili quantomeno parole e discorsi che scaldino il cuore e nelle quali riconoscersi comunità. Spesso sono sufficienti dei gesti simbolici per cambiare il corso delle cose. Una frase pronunciata nel momento più delicato, un abbraccio virtuale nell’ora più buia. Chi ricopre incarichi di grande responsabilità sa quanto e quale valore può avere la parola, nel bene e nel male.

E allora questo era forse il tempo giusto non per parlare dei bambini, ma con i bambini. Quanto sarebbe stato opportuno oltre che umanizzante rivolgere un messaggio – chiaro, semplice, sereno – ai bambini, a tutti i bambini d’Italia, per dire loro “ecco, ci siamo, conosciamo le vostre fatiche, immaginiamo i vostri dubbi, comprendiamo i vostri genitori, progettiamo insieme il vostro e nostro presente in questo tempo così incerto e fragile”?

Non occorre attendere il tanto agognato “decreto bambini” per farlo, né occorre essere esterofili per riconoscere la sensibilità mostrata da premier e ministri in alcune parti del mondo. I discorsi con i bambini si possono fare. Anche in maniera ricorrente, o creativa, o declinando tono e registro.

In Nuova Zelanda, in Canada, in Norvegia, in Danimarca, in Finlandia è stato fatto, sicuramente anche altrove.

È servito a fare riaprire prima asili e scuole o a risolvere i problemi concreti delle famiglie con bambini? Probabilmente no, ma è servito per includere nelle scelte anche i più piccoli, coinvolgendoli nello sforzo collettivo contro il coronavirus pur non avendo ancora l’età giusta per votare, e far percepire a loro e ai loro genitori il senso di appartenenza a una collettività.

Una parte del nostro Paese lo avrebbe indubbiamente apprezzato. I bambini non sono i cittadini di domani, come ci sentiamo spesso ripetere. I bambini sono cittadini del presente, e quali cittadini saranno domani dipenderà anche da quali attenzioni riserviamo loro oggi e dal livello di maturità con cui impostiamo le nostre relazioni con loro.

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Sociologo, assegnista di ricerca presso l'Università di Padova. Si occupa di politiche sociali per l'infanzia, famiglie vulnerabili e cittadinanza attiva. Ama la musica rock e i cantautori e ne scrive mescolando ricordi, sensazioni e aneddoti.
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