Come è meglio chiamare le persone disabili?7 min read

7 Agosto 2018 Disabilità -

Come è meglio chiamare le persone disabili?7 min read

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come chiamare le persone disabili
@No Barriers Usa

Forse qualche volta ve lo siete chiesto anche voi, di fronte all’abbondanza di termini disponibili per definire la condizione di chi ha una disabilità: come chiamare le persone disabili? L’argomento non tocca solo questioni linguistiche, ma anche sensibilità individuali e collettive, trattandosi di una minoranza con una storia di discriminazione.

Non esiste dunque una risposta unica, anche se un anticipo parziale – almeno per quanto riguarda le mie preferenze – potete trovarlo nel titolo stesso di questo articolo. Se sperate però di arrivare alla fine di questo articolo con una soluzione semplice in tasca, un termine perfetto e univoco che valga per tutti, allora devo deludervi.

Nelle diverse fasi storiche, le parole usate per riferirsi alle persone disabili sono cambiate di pari passo con l’evolversi del pensiero sociale e politico nei loro confronti. Per chiarirci le idee percorriamo insieme la storia di questa terminologia arrivando ai giorni odierni, per chiarire le idee su come chiamare le persone disabili.

Minorato, infelice, storpio, infermo, menomato, offeso

Sono termini che non si sentono dire (quasi) più. Per fortuna. Ma fino agli anni cinquanta o sessanta era così che veniva indicato chi aveva deficit fisici o mentali. Evidentemente all’epoca non c’era alcun tipo di remora sul politically correct: la visione pietistica era molto schietta e senza peli sulla lingua.

Sono parole che fanno molto Cuore di De Amicis, dove troviamo il personaggio di Nelli, un ragazzo definito gobbo, gobbino e, appunto, infelice. I termini di questa categoria sono parole con cui forse solo i nostri nonni hanno familiarità. In ogni caso, da evitare assolutamente.

Handicappato

Questa parola fa rabbrividire chiunque sia un minimo attento ai diritti dei gruppi discriminati, ma ad alcuni sorprenderà sapere che invece il contesto in cui si è diffuso questo termine è per certi versi positivo.

Si affaccia infatti in Italia intorno agli anni settanta, quando comincia ad esserci più attenzione per l’inclusione sociale delle minoranze e termini come “minorato” e “infelice” iniziano ad essere avvertiti come inadeguati, poco aggiornati rispetto al dibattito sociale e al clima culturale.

Handicappato si diffonde come tentativo di abbandonare una visione tragica e totalizzante a favore di un’idea più neutra di svantaggio – inteso come presenza di ostacoli – che interessa le persone disabili.

Usato talvolta nella sua declinazione di “portatore di handicap”, deriva dall’inglese ed è preso in prestito dal mondo delle corse di cavalli, in cui si dava al cavallo più forte uno svantaggio, un handicap appunto, col fine di rendere più equilibrata la gara.

Il termine handicappato ha però una storia travagliata, perché comincia presto ad essere utilizzato in termini dispregiativi. È ora un esempio eloquente di logoramento semantico, di come cioè l’uso modifica concretamente il significato della lingua.

E così, ironia della sorte, ormai si associa l’ignoranza all’uso di un termine che invece era nato come tentativo di aggiornamento. Per queste ragioni oggi non è assolutamente da usare, pena essere considerati, appunto, ignoranti.

Disabile

Proprio perché handicappato non era più considerato accettabile, si è diffuso verso gli anni ottanta l’aggettivo disabile, anch’esso mutuato dall’inglese. È il termine oggi più usato per indicare le persone che hanno una qualsiasi limitazione della capacità di agire dovuta a cause fisiologiche.

Ora è quasi universalmente accettato come termine neutro. Quasi, appunto. Il fatto che rimanda a una mancanza, a una insufficienza (significa, di fatto, “non abile”), lo porta ad essere criticato da alcuni. La criticità starebbe nel prefisso “dis” che rovescia il senso positivo della parola “abile”, e sarebbe quindi preferibile utilizzare l’espressione ‘persona con disabilità’.

Secondo una scuola di pensiero, quindi, essendo semanticamente “difettivo” non andrebbe usato perché il suo significato non è propriamente neutro. Si potrebbe riflettere sul fatto che un significato neutro lo ha poi acquisito con l’uso.

In ogni caso, la stessa brevità della parola ha contribuito probabilmente a determinarne il successo: di solito la lingua predilige la praticità, e la comodità di una parola breve è spesso un fattore determinante per la sua diffusione rispetto ad alternative più lunghe o composte.

Diversamente abile

Ecco appunto una di queste parole composte: si è diffusa negli anni novanta, e l’idea era di rimpiazzare una terminologia basata sul deficit e spostare il focus, in qualche modo, sul positivo.

Molti, in realtà, hanno visto “diversamente abile” (e il neologismo “diversabile” inventato dallo scrittore e giornalista Claudio Imprudente), come un esempio di politically correct portato all’eccesso. In ogni caso è un termine ormai generalmente superato, considerato paternalistico e con un sapore ipocrita dalla stragrande maggioranza delle persone disabili, come fece notare Franco Bomprezzi a Roberto Saviano, reo di aver usato l’espressione in uno dei suoi monologhi. Diciamo che ha avuto una fortuna abbastanza breve.

È interessante, ad ogni modo, analizzarlo oggi in quanto tentativo di una categoria discriminata, costantemente sottovalutata, di provare a spostare la riflessione sul valore della varietà umana e sul diritto alle pari opportunità. L’idea di una persona disabile che fa le cose “diversamente” ha indubbiamente un suo senso; il rischio però è di cadere in un terreno scivoloso dove si risulta affettati e artificiosi.

Possiamo dire insomma che rappresenta una fase sorpassata. In un contesto come quello odierno, leggermente meno retrogrado rispetto agli anni novanta per quanto riguarda diritti e disabilità, non c’è più bisogno e non ci deve più essere bisogno di sottolineare che le persone disabili hanno potenzialità: dovrebbe essere scontato. Appare anzi controproducente volerlo evidenziare, dato che come già detto è difficile non percepire questa espressione come affettata e paternalistica.

Invalido

Termine che evoca immediatamente un certo linguaggio burocratico, è ancora abbastanza usato soprattutto in certi ambiti amministrativi non particolarmente aggiornati. Il significato che vi sta dietro è piuttosto negativo: in questo caso ad essere negata non è una abilità, ma addirittura il concetto di validità della persona!

Persona con disabilità

Ultima della nostra carrellata, questa espressione si è diffusa negli anni più recenti. Come già accennato, alcuni infatti ritengono che disabile abbia un significato troppo totalizzante, e che faccia coincidere la persona con la sua disabilità, e preferiscono separare la disabilità dalla persona (tramite la preposizione “con”, appunto).

Il dibattito tra chi preferisce “disabile” e chi “persona con disabilità” rimane un dibattito complesso, che non può prescindere da una riflessione sullo stigma legato alla disabilità, per cui la stessa parola “disabilità” si carica per alcuni di un significato negativo, tanto da volersene distaccare il più possibile.

È interessante riflettere sul fatto che si sia reso necessario, per alcuni, specificare che le persone sono “con” disabilità. Appare evidente come sia ben presente la sensazione da parte delle persone disabili di venire spesso ridotte alla propria disabilità, ed ecco quindi il tentativo, tramite il linguaggio, di opporsi a questo modo di essere visti.

Come chiamare le persone disabili? Considerazioni finali

Per riassumere: persona/uomo/ragazza/studente disabile e persona/uomo/ragazza/studente con disabilità sono entrambi validi e accettati in ogni registro, poi ogni persona direttamente coinvolta ha le sue preferenze.

L’importante è evitare di dire “il disabile”, come invece vediamo spesso persino nelle notizie sui giornali, per lo stesso motivo per cui non si dice “un gay”, cioè per il fatto che indicherebbe poca considerazione. Insomma, l’aggettivo non deve diventare un sostantivo.

Attenzione, però, divieti e suggerimenti valgono solo per chi non è disabile. Per le persone toccate direttamente dalla questione il discorso è diverso. Vige infatti per tutti i gruppi di minoranza la regola per cui ognuno è libero di scegliere come identificarsi: se qualcuno vuole autodefinirsi “diversamente abile”, è importante che ciò sia possibile.

Il comico e scrittore David “Zanza” Anzalone ad esempio si autodefinisce handicappato, scegliendo di recuperare un termine che è stato usato – e continua ad essere usato – come insulto e dargli nuovo significato. Un po’ come fanno alcune donne lesbiche che si definiscono provocatoriamente “frocie”, lo utilizza come simbolo identitario che coniuga orgoglio (nel senso di pride), una certa ironia e uno sguardo dissacrante.

In ogni caso, il fatto che chi non è disabile non debba usare handicappato è facilmente intuibile. Invece non tutti sanno che si dice “ciechi” e non “non vedenti”, così come “sordi” e non “non udenti”. Le parole per indicare chi vive la sordità e la cecità esistono, quindi creare degli eufemismi con dei prefissi negativi in questo caso non ha senso.

Si dice inoltre “una persona con sindrome di Down” e non “una persona Down”. Per quanto riguarda invece l’autismo, in italiano è più diffuso “persona con autismo”, ma c’è un dibattito internazionale a riguardo. I più attivi nel sostenere la preferenza per “autistico” sono gli attivisti americani interessati personalmente da questa condizione.

Infine, per lasciarvi con un’ultima pillola prescrittiva, ricordiamo che bisogna evitare espressioni come “costretto su una carrozzina”, sostituendole con “in carrozzina” o “che usa una carrozzina”. Nessuno, infatti, è costretto con la pistola alla tempia a salire sulla sedia a rotelle, che è invece uno strumento di libertà.

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Classe 91, ha studiato arabo a Londra, insegnato italiano a stranieri e fatto attivismo sociale. Ama: le margherite, i Dire Straits, l'autoironia, i concerti, le basette. Non sopporta: le ingiustizie, chi si prende troppo sul serio, chi si vanta dei propri gusti musicali. Nel suo mondo ideale lei è in carrozzina (come adesso), ma ha gli stessi diritti dei bipedi: di questo scrive su Witty Wheels.
3 Commenti
  1. Patrizia Chini

    Vivo questa condizione perciò ho scritto questa poesia IN VERNACOLO ROMANSCO:ER MODO‘Na vorta te chiamavano handicappato se solo c’avevi quarche difficortà a portà a termine le “quotidianità”.Ma ‘sta parola cor passar dell’anni se è usata più che artro pe indicà... lo storpio, er cieco o er deficiente nato.Allora l’essere umano, che è tenero de core, ha cominciato a dì che era più giusto e facile chiamallo “Sor disabile”Per questo oggi posso strillà forte e chiaro “So disabile... e no handicappato” che sapeva de corpa, de zolfo e der diavolo ...So contento de sta parola nova che sembra nun offenne più de tanto. Ma se ce penso, so sincero e dico:“In fonno le parole so parole e nun te fanno male più de tanto… quello che te fa male è solo “er modo”.

  2. M. Chiara

    Ahahah bella!

  3. Leonardo

    Recentemente ho letto l'articolo integrale di Civiltà Cattolica riportato al link seguente https://www.laciviltacattolica.it/articolo/noi-non-loro-la-disabilita-nella-chiesa/Qui si utilizzava una definizione di disabile che mi ha illuminato e soprattutto condiviso con una giovane donna paralizzata in un letto di ospedale da 6 anni ha riscontrato il suo gradimento; colui che ha perso la sua "temporanea abilità" . Ognuno di noi è un "abile temporaneo" per cui non esiste un noi e un loro ma solo un noi!

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