Alla scoperta di Van Gogh12 min read

12 Febbraio 2015 Cultura -

Alla scoperta di Van Gogh12 min read

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Chi era Van Gogh
A sentire “Van Gogh” si pensa subito alla figura del solitario ribelle pel di carota in bilico tra genio e follia, al piccante gossip della convivenza con la prostituta incinta ritratta nella litografia Sorrow, alla romanzata vicenda dell’orecchio tagliato per la lite con Gauguin, al ricovero in manicomio e alla tragica fine da suicida; il tutto reso digeribile dal giallo che più giallo non si può dei suoi girasoli, dalla “magia” delle sue notti stellate e dall’espressività delle sue inconfondibili pennellate a vortice.

La teatralità della sua biografia ha reso l’artista una figura molto mediatica, ma chi è davvero Vincent, prima di diventare Van Gogh? Uno spunto utile è fornito dalla mostra Van Gogh e la terra, esposta al Palazzo Reale di Milano fino all’8 marzo. In continuità con il tema dell’Expo 2015 “Nutrire il pianeta”, la mostra pone l’accento sul Van Gogh meno conosciuto degli inizi, legato ai temi sociali e al lavoro nei campi ispirati al realismo di Millet, oltre ad offrire un ricco repertorio di scritti dell’artista, soprattutto di estratti delle famose lettere al fratello Theo. Tra i due esisteva un legame affettivo fortissimo e un formidabile sodalizio artistico, dato che il fratello era mercante d’arte presso la galleria Goupil & Cie di Parigi.

La mostra è solo lo spunto iniziale del viaggio compiuto da questo articolo, che parte dalle origini dell’ispirazione creativa di Van Gogh per poi procedere oltre i contenuti della mostra in uno sforzo di sintesi, incrociando elementi biografici e cenni critici di diversa provenienza (vedi Fonti) con una rielaborazione personale del tutto. L’impresa è decisamente audace, quasi folle, da amanti delle cause perse: tentare di tracciare in poche facciate un ritratto di questa intensa figura di uomo e artista in modo che risulti il più possibile fedele all’originale. Insomma, un’impresa appunto un po’ alla Van Gogh.

Chi era Van Gogh? Gli esordi: la terra bruna

Chi è dunque Vincent? Camminando per le sale di Palazzo Reale si apprende che all’inizio è uno che non sa disegnare, perché prima ha fatto altro (cosa insolita per un artista nato a metà Ottocento), ma in compenso sa passeggiare e osservare. Fare passeggiate nei campi ai tempi non era certo la tipica occupazione del tempo libero della borghesia, a cui Van Gogh tecnicamente apparteneva. Ma Vincent è Vincent.

Lui è lunghe camminate alla ricerca di nidi caduti che giacciono in disparte sulla terra bruna. Vincent è le mani che li raccolgono e li accolgono. Vincent è gli occhi che scrutano sognanti le umili capanne brune dei contadini simili a quegli stessi nidi d’uccello, ma con dentro un focolare in cui condividere i frutti della terra. Nidi caduti, capanne, contadini. Sono questi i soggetti prediletti dei primi quadri, niente covoni dorati e cieli blu, non ancora. L’inno alla luce divina arriverà dopo, in Francia, dopo la svolta parigina del 1886.

Se per Goethe “Dove c’è molta Luce, c’è anche molta Ombra”, per Van Gogh dove c’è molta ombra, c’è anche molta luce, cioè Vincent parte dall’ombra. Lo sguardo di Vincent non è quello della gazza ladra che scorge ciò che luccica, ma quello di un pacifico predatore notturno o di una sentinella del mattino che vede nel buio come fosse luce, che scorge nell’ombra ciò che si annida negli angoli inosservato, inespresso, negletto, dimenticato.

È ispirato dal lavoro dei contadini perché in loro vede gli ultimi, gli umili, i semplici immersi nella natura, che è soprattutto terra bruna. Per questo inizia a ritrarli nei campi per giornate intere, intenti nei loro gesti contratti dalla fatica, lì curvi in contatto quasi simbiotico con quella terra, senza filtri. Quella stessa terra che Vincent si sente spesso mancare sotto i piedi.

Per Vincent alle prime armi i contadini sono degli esseri esemplari, dei punti di riferimento essenziali su cui fondare il suo percorso di artista: sono dei modelli gratuiti per imparare la tecnica del disegno, ma soprattutto delle creature primigenie, profondamente morali, simbolo di una santa frugalità ascetica. A sua volta la terra, resa fertile dalla fatica dell’uomo, è qualcosa di sacro, di cui simbolicamente tutto è intriso: la pelle, le patate, le case. Questo colore bruno, scuro, in senso simbolico è vicino all’umiltà, alla purezza, alla fertilità della cenere. Uno psicologo direbbe che è il buio come rifugio amico, quello dell’utero materno.

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Per l’artista olandese l’arte è una vocazione simile a una chiamata religiosa al servizio della rappresentazione soggettiva di ciò che, attraverso la sua sensibilità, percepisce come sacro. L’artista afferma che possiamo vivere di pane e poco altro. E se viviamo di pane, allora siamo ciò che mangiamo, cioè siamo tutti del grano fragile, pronto a spezzarsi. Per Van Gogh il valore del dono e del sacrificio è molto alto. La vita è fatica, una tensione costante verso un perfezionismo ascetico: la ricerca di un ideale superiore, di un senso religioso dell’esistenza da raggiungere attraverso l’arte vissuta come missione; non senza quello stesso eccesso di zelo che aveva contraddistinto i sermoni della sua esperienza come pastore evangelista laico con i minatori belgi della Mons.

Ma facciamo un salto in avanti: chi sono quei corvi neri che compaiono in uno dei suoi tardi dipinti più famosi? In realtà dietro ai nobili ideali si nasconde il senso di amputazione di un rifugio negato, la fatica di essere se stesso in un mondo che non lo comprende. Scrive che i suoi genitori lo considerano un grosso cane ispido, sgraziato e ingombrante. Solo l’amato fratello crede nella sua arte e lo sostiene, anche economicamente. Sappiamo poi che con le sue brevi e tormentate storie d’amore Vincent non approda mai all’agognato focolare, se non forse in quell’abbraccio finale, fatto di terra e grano dorato, in quel campo in cui si spara il 29 luglio, a 37 anni. La sua fine concide con l’inizio: è un ritorno alla madre terra.

Chi era Van Gogh? L’uomo: il limite

Quel suo volto tormentato che ti guarda un po’ di sbieco da una improbabile borsa di tessuto appiattita sullo scaffale del negozio della mostra, con tanto di bollino del prezzo messo giusto in corrispondenza della bocca, come a volergli imporre il silenzio.

Ironia della sorte, sembra proprio che questa sia stata la costante che ha segnato quasi tutta la vita di Vincent Van Gogh, una vita paradossale. Il continuo tentativo – se non di zittirlo – di moderarlo, spesso ignorandolo, ricorre nella sua biografia, perché il pittore agli occhi dei più oltre un pazzo, era un tipo scomodo e un perdente. Uno che pretende di redimere tutti, ma che non sa badare a se stesso. Uno che si auto-proclama artista, ma che in tutta la vita è riuscito a vendere un solo quadro: La vigna rossa. A dire il vero però il primo riconoscimento lo ebbe ancora in vita nel 1890, alcuni mesi prima del suo suicidio, con un’esposizione dei suoi quadri al Salon des Indépendants e successo di critica.

Vincent non era interessato al successo o alle cose del mondo. Se l’avessero fatto santo Van Gogh potrebbe essere patrono degli strani, dei diversi, degli emarginati, di quelli con dopamina in eccesso, insomma, uno sulle corde di De Andrè, ma con inclinazioni più ascetiche. Era candido, testardo, anticonformista, irascibile, ipersensibile, bisognoso di affetto. Ebbe delle amicizie, ma fu il suo fanatismo, la sua incapacità di modulare le emozioni, a creargli spesso una voragine intorno. Il suo sogno di creare una comunità di pittori, che producesse un’arte corale, rimase irrealizzato.

Si è parlato di schizofrenia, di disturbo bipolare, ma di fatto non sappiamo con certezza la natura della malattia mentale che lo affliggeva, se non che talvolta perdeva coscienza di sé, aveva crisi epilettiche, allucinazioni e momenti di grave prostrazione nervosa e non doveva essere facile stargli accanto. Inoltre, per dirla con Freud, forse come sottofondo costante gli rimbombava in testa la voce di un Super Io spietato ma familiare (rappresentato dal padre, rigido pastore protestante), un forte punto di riferimento che strutturava le sue sicurezze, ma che lo consumava come un cero sacrificale, portandolo all’autodistruzione.

Chi era Van Gogh? La pittura: il mondo

Di solito la pittura di Van Gogh piace anche ai non addetti ai lavori, per la sua riconoscibilità e per la sua capacità di esprimere una forte intensità, un’energia percepibile a chiunque attraverso la sua arte, che porta lo spettatore a un’interazione diretta e istintiva con le opere. Di quadri come il famoso I mangiatori di patate della fase “scura” è apprezzata l’espressività realistica e quasi caricaturale, dei noti paesaggi in giallo e blu l’intensità di colore, di gesto, di tratto, il protagonismo della luce. Non c’è dubbio che da molto tempo Van Gogh sia entrato nell’immaginario collettivo e che quindi faccia parte del nostro mondo da un bel po’.

Ovviamente su Van Gogh è stato scritto di tutto e di più da critici e storici dell’arte. Parlando in senso lato della pittura di Van Gogh, i critici si soffermano in particolare sul passaggio dalla fase iniziale in cui predominano i toni scuri della terra, a quella francese in cui si avverte l’influsso post-impressionista del divisionismo di Seurat (seppur applicato in modo non scientifico), in cui i colori si fanno più chiari e luminosi, accesi dai contrasti tra colori complementari, ma rispetto ai “puntini” di Seurat man mano la pennellata si fa più allungata, scissa, e il gesto segue il verso della cosa dipinta.

Infine il divisionismo (in cui si utilizzano tutti i colori con padronanza specifica) evolve in una pittura fatta di variazioni solo di certi toni e dove protagonista è il gesto, esibito come grafia personale. Ecco allora quei suoi paesaggi con predominanza dei gialli e dei blu (colori teologici), in cui la notte è luminosa come il giorno, ed ecco quei vortici simili a onde, da cui trapela ciò che é sacro per Van Gogh: l’energia cosmica della natura.

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Dagli ultimi decenni del 19° secolo, con l’incremento degli studi di antropologia e in opposizione alla società moderna, si diffonde un desiderio di ritorno allo stato di innocenza delle civiltà preistoriche e dei popoli “selvaggi”. Artisti come Gauguin, Matisse e Picasso interpretano ognuno a proprio modo questa tendenza primitivista, recuperando la semplificazione delle forme e l’esaltazione dei valori plastici tipici dell’arte “primitiva”, e proiettandola su disparati spunti di ispirazione (sia antichi sia contemporanei) con cui entrano in contatto. Nemmeno Van Gogh é immune da quest’humus primitivista, anche se in modo più indiretto e filtrato, come per esempio nella ricerca di soggetti primigeni, velatamente simbolici: contadini olandesi o donne bretoni in costume tradizionale – portatrici di valori originari – o direttamente la natura.

Inoltre, nei suoi quadri é innegabile l’influsso delle stampe giapponesi nel segno definito dei contorni, nella visione dall’alto, nella tecnica della visione floreale ravvicinata, nella voluta piattezza e nell’annullamento prospettico. Tutte caratteristiche che mirano a una semplificazione pacificante. In particolare è noto il riferimento a Hokusai per la tecnica grafica del “punto e tratto”, alla radice – insieme al divisionismo – della sua leggendaria pennellata, vero e proprio codice personale. Infine, c’è chi trova nelle pennellate vorticose una sorprendente rappresentazione grafica della turbolenza dei fluidi in fisica, e chi non dimentica di individuare in lui un cruciale ispiratore per espressionisti e fauves.

È evidente che Van Gogh, pur non abbandonando mai il vero come riferimento, lo reinterpreta secondo la propria emotività, e, malgrado i vari influssi, con uno stile decisamente personale. Con Van Gogh anche semplici nature morte e oggetti parlano: la sua camera da letto nella Casa Gialla di Arles, la natura morta col cappello, parlano di sé e delle proprie aspirazioni, come per esempio del suo ideale di quiete domestica. Mentre nei numerosi autoritratti l’artista si offre in modo diretto al pubblico, presentandosi nel ruolo di artista-profeta, incarnando, come forse nessuno prima, una tradizione iniziata già nel 1500 da Albrecht Dürer e giunta all’apice teorico con la filosofia romantica di Schelling.

Più percepisce i suoi limiti umani, più Van Gogh sente dentro di sé il mondo e vede nel mondo pezzi di sé, illuminati dalla luce del sacro, che ha il potere unificante di ricucire le divisioni tra le cose. Sia che si ritragga come un bonzo orientale o come un borghese parigino, sia che le pennellate traccino intorno al suo capo un’aureola o gorghi labirintici, lo sfondo ha lo stesso andamento e gli stessi colori dei vestiti e della persona: c’è continuità tra dentro e fuori, tra figura e sfondo. In Van Gogh l’individuo non è nel mondo, ma è il mondo. Il mondo a sua volta è icona dell’universo.

Chi era Van Gogh? Il simbolo: l’universo

La vita di Van Gogh, come la sua arte, è data dal contrasto tra una vorticosa instabilità e pochi punti fermi come stelle fisse, a cui l’artista si ancorava ossessivamente in cerca di stabilità, mentre galleggiava a stento in gorghi blu-incubo. Ma definire la sua vita come nient’altro che la sublimazione in giallo sfolgorante di un grande buco nero, sarebbe riduttivo.

Van Gogh, come tutti gli uomini di una sensibilità estrema, sentiva dentro di sé l’universo. L’artista fu dilaniato come pochi dall’ambivalenza dell’assoluto, di cui percepiva in modo amplificato da un lato l’energia benigna che allarga e scalda il cuore, e dall’altro il vuoto labirintico di un nulla cosmico, in un modo che ricorda una certa sensibilità leopardiana (nonostante la sostanziale diversità di vedute con quest’ultimo). Un grande scontro tra luce e tenebra, tra ordine ed entropia, che non conosce pace.

Il suo essere nel contempo eco dell’universo e della fragilità umana, il suo desiderio di credere strenuamente in qualcosa di nobile, la sua solitudine di naufrago, lo rendono un eroe tragico, un pellegrino contemporaneo, espressione di un disagio universale in cui tutti possono riconoscersi. Come dire, c’è un po’ di Van Gogh in tutti noi, nel bene e nel male, e forse è proprio quel lato che tendiamo a rimuovere, ma di cui non possiamo fare a meno di portare le stimmate.

Come ben esprime l’ultimo dipinto in mostra a Milano, in quella parte di sé che considerava degna di vivere attraverso il potere del simbolo e in quel caparbio e deficitario voler vedere la luce nel buio – un riflesso di sole divino nella pallida luna umana, fatta della fragile consistenza e del colore del grano – Van Gogh continua a farsi pane spezzato e a risorgere, e un pezzetto di noi con lui.

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Fonti:
Mostra Van Gogh e la terra, Palazzo Reale, Milano
Il Novecento, protagonisti e movimenti di G. Dorfles, A. Vettese, Atlas, Bergamo, 2009
I classici dell’arte – Il Novecento, di F. Armiraglio, Skira/RCS, 2004

Immagine di copertina / Ritratto in sanguigna di Chiara Vitali

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Nata milanese, naturalizzata scozzese, morta veneziana, risorta in riva al Piave. Con alle spalle 12 traslochi e 2 lauree (lingue e arti visive), l'ex poetessa della classe non ha ancora capito cosa farà da grande, intanto si interessa di quasi tutto, a fasi. Qui è amante di cause perse, tipo comunicare.
2 Commenti
  1. Giuseppina

    Conosciamo Vincent Van Gogh attraverso alcune sue opere e come la sua vita legata all'arte fosse molto triste per le tragiche vicende da lui vissute, le crisi che l'hanno fatto definire "pazzo" in vita. Dobbiamo però considerare che nelle sue opere la natura non è resa in modo artificioso, ma reale. Da tutte le sue tele traspare uno stile, costantemente il suo stile. In questo articolo l'autrice, delinea molto bene la personalità di questo artista che fu un grande osservatore della natura nella quale "si immergono gli umili contadini curvi sulla terra bruna". L'artista, si legge nel link , rivela come la sua sensibilità lo spinga alla ricerca del raggiungimento dell'arte 'vissuta come missione'. In questo link l'artista non era da considerarsi un pazzo o un perdente, ma solo non era interessato unicamente al successo, era principalmente bisognoso d'affetto. Era un uomo che non sapeva controllare le sue emozioni. L'attenta lettura mette in luce il pensiero di V.G.: 'l'energia cosmica della natura, l'individuo è il mondo, lo scontro fra luce e ombra che non gli dà pace e la conseguente ricerca della luce nel buio'. Molto ben riuscito il ritratto dell'artista di C.V.

  2. Chiara

    che poi a dire il vero in "Van Gogh: The Life" di Steven Naifeh e Gregory Smith, due storici dell'arte americana, sostengono che in realtà il pittore non si sia suicidato, ma che fosse partito accidentalmente un colpo di pistola a un adolescente suo amico e compagno di bevute. Comunque sia andata, sembra che a Vincent non sia dispiaciuto troppo questo epilogo.

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