Caso Salva Banche: cos’è successo?12 min read

11 Dicembre 2015 Politica Politica interna -

Caso Salva Banche: cos’è successo?12 min read

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Caso Salva Banche: cos’è successo? Siamo entrati nel nuovo mondo

LE DOMANDE
Cos’è successo? Sono fallite delle banche? Oppure delle banche sono state salvate dallo Stato? E allora chi ci ha rimesso i soldi ? Il Governo ha delle responsabilità? E l’Unione europea? Chi paga? È giusto o sbagliato quello che accade? Lo diciamo da subito, proseguire nella lettura richiederà uno sforzo di comprensione, ma il risultato sarà la consapevolezza di cambiamenti epocali, che – come dimostra la triste vicenda del pensionato di Civitavecchia che si è tolto la vita – toccano tutti in prima persona.

I FATTI
Il 22 novembre il Governo italiano ha emanato il decreto 183 del 2015, cosiddetto “salva banche”, con il quale ha risolto la crisi di quattro banche medio piccole, o banche locali, che nel complesso raggiungono una quota di mercato pari all’1% dei depositi a livello nazionale: Banca Marche, Banca popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di risparmio di Ferrara e CariChieti. Queste banche erano da tempo commissariate, cioè amministrate in via straordinaria dall’Autorità bancaria italiana (Bankitalia), a causa della grave situazione di dissesto nella quale versavano. Poiché, tuttavia, non è stato possibile rimediare alla loro situazione finanziaria deteriorata, le stesse erano ormai destinate al fallimento. Il fallimento di una banca porta con sé gravi conseguenze per l’economia circostante. Il nome Lehman Brothers dovrebbe dire qualcosa. In primo luogo, se una banca fallisce, tutti i creditori della banca perdono la propria pretesa creditoria, parzialmente o totalmente. La banca non ha più soldi da restituire. In altre parole, gli azionisti, gli obbligazionisti e i correntisti (questi sono i creditori di una banca) perdono il denaro che la banca deve loro. In aggiunta, se la banca fallisce, si verifica una perdita di posti di lavoro e un crollo della fiducia che può anche arrivare ad intaccare altre banche, altri risparmiatori, altri depositi. Da ultimo, se la banca fallisce, le aziende e le famiglie che contano su finanziamenti da parte di quell’istituto, anche se non perdono nulla, si ritrovano senza supporto. Se la banca è una realtà locale, magari l’unica di un piccolo territorio, il danno è grande anche se la banca non lo è. Per ovviare a queste conseguenze, il Governo, di concerto alla Banca d’Italia, ha applicato la disciplina prevista per la gestione e la risoluzione delle crisi. Il fatto è, però, che dopo la grave crisi finanziaria con le cui conseguenze siamo ancora alle prese, le regole da applicare in questi casi sono completamente cambiate, registrando una vera e propria rivoluzione copernicana: siamo entrati nel nuovo mondo. Vediamo perché non è un mondo peggiore.

LE REGOLE
Con le vecchie regole, di fronte a una crisi bancaria irrisolvibile, uno Stato aveva fondamentalmente due scelte: lasciare fallire la banca, con tutte le conseguenze spiegate sopra, o salvarla con denaro dei cittadini. Esiste qualche ulteriore sfumatura, ma ce ne occuperemo in seguito. Proprio perché un fallimento bancario può essere una bomba atomica, gli Stati hanno (quasi) sempre preferito salvare le banche in crisi spendendo denaro pubblico in varie forme. Fra il 2008 e il 2012, gli Stati europei hanno approntato fino a 5.000 miliardi di Euro per salvare le banche in crisi (l’Italia, va detto, solo 4 miliardi, per il Monte dei Paschi di Siena). Il tutto a spese del contribuente. Tanto per rendere l’idea, si tratta di una cifra pari al PIL della Germania nel 2012, o al 40% del PIL dell’UE. Sempre per capirsi, il prestito della Troika per salvare l’Irlanda ammontava a 85 miliardi. Qui parliamo di 5.000. Come conseguenza, le crisi delle banche si trasferivano al bilancio dello Stato, portandolo potenzialmente al default (sempre il caso dell’Irlanda). Inoltre, la certezza che lo Stato sarebbe intervenuto a salvare un banca in crisi, dava luogo al fenomeno dell’azzardo morale (moral hazard): la banca, certa del paracadute, era incentivata a intraprendere politiche di rischio più spericolate. La cosa, evidentemente, non era sostenibile. Per questo, l’Unione Europea ha costruito l’Unione Bancaria. Un suo pilastro fondamentale è rappresentato dalla Direttiva BRRD (Banking Recovery and Resolution Directive), cioè proprio dalle nuove norme sulla prevenzione, gestione e risoluzione delle crisi. Il perno è, come dicevamo, rivoluzionario: le banche, come ogni impresa, devono poter fallire. Il fallimento deve essere ordinato, cioè non provocare disastri economici e, se possibile, salvare la parte ancora economicamente sostenibile dell’impresa (è il concetto della risoluzione, applicato nel caso che raccontiamo). Lo Stato non può usare denaro dei contribuenti per salvare banche in crisi: le perdite della crisi, sia che la stessa sia reversibile (cioè la banca si riprende), sia che sia irreversibile (cioè la banca fallisce) devono essere sopportate da azionisti e creditori della banca. Questo è il famigerato bail-in, che significa “salvataggio interno”. Si contrappone al bail-out, il “salvataggio dall’esterno”. Lo ripetiamo, per chiarezza: se una banca rischia di andare a gambe all’aria, niente più salvataggio dello Stato (bail-out). Se la banca sopravvive, lo fa con le proprie forse, cioè assorbendo le perdite in primo luogo mediante le proprie risorse: il capitale di rischio (le azioni), quello di prestito (le obbligazioni) e gli altri crediti (i depositi), che vengono svalutati anche fino a zero o convertiti in capitale, per ricostituirlo ove possibile. Se il bail-in è il meccanismo, il suo scopo è realizzare un concetto: il “burden sharing”, cioè la “condivisione degli oneri”. Teniamolo a mente. Infatti, solo quando è stata applicata una determinata misura di condivisione degli oneri, allora può arrivare il supporto di risorse che tutte le banche accantonano in un nuovo apposito fondo, detto Fondo di Risoluzione (utilizzato nel caso che raccontiamo). Ma la condivisione degli oneri è il presupposto, la condizione necessaria anche quando non sufficiente. Da ultimo, qualunque cosa succeda, i depositi fino a 100.000 euro sono sempre al sicuro, anche in caso di Armageddon, grazie al Fondo di garanzia dei Depositanti (sempre a spese delle banche), che ripaga i depositi fino a 100.000 in caso di fallimento.

Riassunto: lo Stato non può salvare le banche con denaro dei contribuenti, le perdite devono essere sopportate in primo luogo da azionisti e creditori. Se la banca si salva, lo fa con le proprie forze, oppure fallisce. Il mondo è cambiato.

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COSA HA FATTO IL GOVERNO?
L’Italia, in ritardo di svariati mesi, ha recepito in diritto interno le regole sopra descritte proprio a fine novembre. In base a queste, il Governo e Bankitalia hanno applicato la risoluzione, cioè la nuova procedura alternativa alla liquidazione (liquidazione uguale fallimento). Sono state costituite 4 nuove banche a cui sono state trasferiti gli attivi e parte del passivo (i depositi), delle banche pre-esistenti. In più, è stata costituita una bad bank, cioè un contenitore a cui sono stati trasferite tutti i crediti irrecuperabili delle banche che pesavano sui bilanci (ad esempio i crediti che una banca non è più in grado di recuperare perché per esempio il mutuatario non ha più soldi o è fallito). In questo modo, nell’arco di un weekend, le banche sono state salvate, lo Stato non ha speso nulla, nessuno ha perso il posto di lavoro, nessun correntista ha perso un euro e ha trovato il lunedì mattina il proprio conto intatto nella nuova banca. Perfetto dunque? Manca qualcosa: qualcuno deve pur pagare le perdite. Attenzione infatti a tre aspetti fondamentali.

Primo, applicando le nuove norme, il Governo ha dovuto prevedere la condivisione degli oneri. Lo Stato, cioè, non ha pagato di tasca propria un solo euro, ma in cambio – applicando la legge – ha addossato le perdite ad azionisti e alcuni creditori delle banche: in particolare, gli obbligazionisti subordinati, cioè i primi nella lista dei creditori a sopportare le perdite, perché le obbligazioni subordinate pagano di più ma sono più rischiose.

Secondo, come spiegato prima, solo dopo l’applicazione della condivisione degli oneri, si è potuto fare ricorso al Fondo di Risoluzione, dotato di risorse pagate dalle sole banche, per finanziare tutta l’operazione, assorbire altre perdite e costituire le 4 nuove banche, salvando posti di lavoro, depositi e obbligazioni senior (meno remunerative e meno rischiose).

Terzo, lo Stato doveva fare tutto entro il 1 gennaio 2016. In questa data, infatti, entra in vigore il bail-in. Se questa operazione fosse avvenuta il primo giorno del nuovo anno, la condivisione delle perdite avrebbe coinvolto non solo azionisti e creditori subordinati, ma anche gli obbligazionisti senior e perfino i correntisti (sopra i 100.000 euro). Quindi, pur senza un euro di denaro pubblico speso, le conseguenze avrebbero potuto essere molto più pesanti.

LA POLEMICA CON LA UE
Quando abbiamo parlato delle enormi somme con le quali gli Stati europei hanno salvato le proprie banche, non abbiamo quasi citato l’Italia. In Italia quei gravi fatti non si sono (quasi) verificati. Perché? In parte, certamente, perché il sistema bancario è complessivamente solido ma, anche, perché di fronte a una crisi bancaria l’Italia utilizzava il proprio Fondo di garanzia dei Depositanti in maniera peculiare: invece di utilizzarlo come salvadanaio da cui attingere risorse per rimborsare i correntisti in caso di fallimento di una banca, vi attingeva prima del punto di non ritorno, per iniettare risorse (e mediante altre forme tecniche) nella banca in crisi al fine di non arrivarci proprio al fallimento. Il tutto in modo efficiente e pienamente lecito. Tuttavia, dall’agosto 2013, la Commissione europea – nero su bianco – impedisce questo uso del Fondo. Il denaro che le banche accantonano per l’eventualità di dover ripagare i depositi a valle di un fallimento può essere utilizzato solo per questo fine. Ogni altro utilizzo è considerato Aiuto di Stato e, in quanto tale, vietato o autorizzabile solo in presenza di stringenti condizioni. L’Italia, dal canto suo, ha provato fino all’ultimo a fare diversamente, cioè a utilizzare il Fondo Interbancario di Tutela dei Depositanti alla vecchia maniera. L’UE glielo ha impedito. Per questo, di fronte al furore di chi ha perso qualcosa, le istituzioni se la prendono con l’Unione Europea. È vero che l’utilizzo del Fondo alla vecchia maniera avrebbe forse evitato perfino lo scenario attuale – che non è comunque quello peggiore – ma, piaccia o non piaccia, la norma che impedisce questa ipotesi sta lì da metà 2013. Ci si poteva pensare prima. A tutto ciò, la Commissione Europea ha risposto laconicamente: le regole sono regole, se le banche erano in dissesto la colpa è loro e se le stesse hanno venduto obbligazioni subordinate, rischiose, a soggetti privati, piccoli risparmiatori e pensionati, la colpa è sempre loro e delle Autorità che glielo hanno concesso.

IL NUOVO MONDO
Cerchiamo quindi di concludere, rispondendo alle domande iniziali. Innanzitutto, nessuna banca è fallita. Se ciò si fosse verificato, tutti avrebbero perso tutto. È stata invece applicata parte delle nuove regole (escluso il bail-in), che hanno consentito di evitare il fallimento e salvare posti di lavoro, depositi e molti altri crediti. L’applicazione delle nuove regole è perfettibile sotto alcuni aspetti tecnici, anche assai rilevanti, ma non possiamo qui approfondire. Inoltre, nonostante il decreto venga chiamato “salva banche”, non c’entra nulla con i salvataggi bancari a spese pubbliche. Lo Stato, cioè i cittadini, non hanno speso un solo euro. L’Unione Europea ha preteso applicazione di norme uguali per 28 Stati. Le stesse regole sono state negoziate e approvate anche con l’accordo e il sostegno dell’Italia. Si può speculare sul tema dell’utilizzo del Fondo di Garanzia dei Depositanti, ma la soluzione scelta dal Governo e dalla Banca d’Italia (Unità di Risoluzione) non è stata imposta dall’Europa. Si è solo trattato dell’applicazione delle regole, peraltro con un certo margine fra tre scenari diversi.

Qualcuno ci ha rimesso dei soldi, perché qualcuno deve pur pagare il fallimento di un’impresa. Vale per tutte le imprese. Se un pastificio è in crisi e sta fallendo, le perdite per il suo salvataggio o quelle derivanti dal suo fallimento ricadono sugli azionisti del pastificio e sui creditori (i fornitori dei macchinari, o delle materie prime, per esempio). Questi soggetti perdono i soldi, senza che lo Stato metta denaro pubblico per salvare l’impresa. Oggi questo, peraltro con molte maggiori e doverose garanzie, avviene per le banche. Nel mondo precedente, le strade erano piene di persone che – giustamente – si indignavano perché gli Stati cacciavano migliaia di miliardi per salvare le banche. Adesso che non è più così, c’è chi si indigna perché i soldi ce li rimette chi nella banca ha investito. Delle due, l’una. Tertium non datur. In italiano, non esiste botte piena e moglie ubriaca. Le banche sono imprese private, chi vi investe deve sapere che, come per ogni altra impresa, il suo investimento, soprattutto se reca alte caratteristiche di rischio, può andare perduto, e che lo Stato non prenderà i soldi di altri milioni di cittadini per salvare il suo investimento, sia in una banca o in un pastificio. Inoltre, almeno per le banche maggiori, i grandi azionisti sono altri banchieri, o fondi internazionali, per cui a rimetterci saranno in primo luogo questi soggetti. Certo, lo stesso vale per i piccoli azionisti, ma le nuove regole vietano che a queste categorie di soggetti siano venduti titoli che recano questo rischio. Queste sono le regole che non sono state applicate. E la responsabilità, in questo caso, esiste.

Il nuovo mondo è questo. Il Governo ha applicato le nuove regole scongiurando scenari molto peggiori. Né ha fatto bene, né ha fatto male. Ha solo applicato le regole, che sono migliori delle precedenti. Ma non ha colpe dirette per le perdite degli istituti coinvolti. Ciò che oggi diventa di fondamentale comprensione è che le banche non possono più speculare, certe che qualcuno le salverà. Non possono vendere prodotti rischiosi a risparmiatori inconsapevoli sperando di farla franca. Le prime falliranno, o verranno ristrutturate mediante le nuove norme, e alcune categorie di risparmiatori perderanno il denaro. Lo Stato, cioè tutti i contribuenti, in ogni caso, non ci rimetteranno. Questo non può essere un principio sbagliato. Tuttavia le Autorità devono impedire che una banca arrivi a questo punto. Inoltre, devono informare i cittadini di questo grande cambiamento, perché da oggi i risparmi sono sicuri solo in banche sicure. Una banca non vale l’altra. Non più. E anche questo, per quanto severo, appare giusto.

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Milano, Dublino, Londra e Bruxelles. Specializzato in diritto bancario, dei mercati finanziari e dell'Unione europea, collaboro con le facoltà di Economia e Diritto di alcune università europee.
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