Cari giallorossi, quello che vorrei…3 min read

26 Gennaio 2015 Uncategorized -

Cari giallorossi, quello che vorrei…3 min read

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cari giallorossi
@calcioblog

Cari Undici,
ci ho pensato un po’ prima di scrivervi queste poche righe. Perché io non sono polemico, non mi arrendo (quasi mai) e le chiacchiere da bar le lascio ad altri. Ho deciso di farlo perché vorrei raccontarvi un po’ di cose. Tutte in fondo belle. O meglio formative, diciamo.

Undici, è chiaramente una sineddoche – dal greco συνεκδοχή «ricevere insieme»… a proposito basta battute sui greci, le olive e Tsipras – per indicare un tutto ben più corposo. E capita, spesso purtroppo, che il tutto in questione non lasci quasi mai niente.

Ecco, cari Undici, io vorrei raccontarvi cosa significa presentarsi in classe, l’anno dei quattro derby persi.
O fare la maturità l’anno dello scudetto della Lazio.
E vorrei raccontarvi quella sensazione strana, quel misto di fatica e orgoglio a cantare, senza ormai più voce, che avremmo vinto il tricolor. Dopo aver preso sette gol dal Bayern.

E uscire dalla Champions ai rigori per un errore di Tonetto? C’ero pure lì e se volete cari Undici, io so’ abbastanza bravo con le parole, ci provo a raccontarvi che si prova.
Poi vorrei raccontarvi che si provava (finché ci vivevo insieme) a svegliare mio padre durante i servizi del tg o di novantesimo minuto; che lui da una vita fa i turni di notte ma i gol della Roma valgono una sveglia e un riaddormentarsi prima di cenare e uscire di casa: “Svegliame quando fanno vede’ la Roma.” Adesso lo dice a mia madre.

Vorrei raccontarvi quello che ho provato il 17 giugno del 2001.
E raccontarvi pure quello che ho sentito il 6 gennaio del 1991, la prima volta allo stadio, con mio padre: la sud, i botti, i tamburi e vola tedesco vola.
E del mio primo abbonamento! Cavolo quante ne avrei da raccontarvi…

O di quando mi prendevo la Roma, ma non a Fifa e nemmeno a PES. A Sensible Soccer. E ci vincevo tutto. Che poi non so perché i gol decisivi li facevo sempre con Amedeo Carboni.
Vorrei raccontarvi delle finali perse, quelle di cui ho memoria, almeno. Che l’amaro in bocca era sempre sostituito poi dall’orgoglio. Dall’essere comunque diversi.
Vorrei raccontarvi di cosa significa credere davvero in Chi tifa Roma non perde mai.

Vorrei raccontarvi del mio amore per la corsa. Sono una pippa, ma corro lo stesso. Perché mi piace come mi sento dopo, perché sono un competitivo del cazzo, perché amo mettermi in discussione, migliorarmi e perché l’idea che durante una maratona almeno fino alla partenza si stia tutti insieme, per esempio io e il campione olimpico, mi affascina. Ed è uno dei pochi sport che te lo consente. Si dice che quando corri sei solo, e spesso quando corri pensi, e se pensi troppo quando fatichi rischi di fermarti. Di mollare. Ed è lì, mi spiegavano, che devi resistere. Quando pensi di mollare se decidi di resistere ancora cinque, dieci, cento metri… alla fine quei cinque, dieci, cento metri faranno la differenza. Almeno dentro la tua testa.
Questo vorrei raccontarvi, ma molti di voi temo che non lo capirebbero.

Ecco, cari Undici. Certe volte sembrate una manica di corridori della domenica che si fermano appena sentono un po’ di fatica. Tornano a casa felici per aver sudato, ma non miglioreranno mai. Purtroppo.

Comunque raccogliamo i cocci e ripartiamo. L’abbiamo fatto centinaia di volte.
Tanto ste 18 giornate toccherà giocarle no?
Qualcuno ancora ci crede. Quando si inizierà a sperare, allora, toccherà preoccuparsi.
Famo a capisse.

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Anche noto come Coso. Classe 1981, attualmente in vita. Nasce brutto e povero e non potendosi permettere di cambiare vita chirurgicamente è costretto a vendere il suo corpo al giornalismo, ma nessuno se lo compra. Casca, si rialza, non se rompe. È tipo il pongo. Scrive cose, fa lavatrici.
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