Un po’ d’Uganda anche per noi14 min read

25 Novembre 2016 Cooperazione -

Un po’ d’Uganda anche per noi14 min read

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ospedale uganda
di Gloria Paolucci, assistente CEO del Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo, Uganda

Ma, se capita, chissà, se capita
Un po’ di giungla anche per me

Così cantava Paolo Conte ne I colleghi trascurati. Così sembra cantare Gloria tra le righe di questo suo racconto. Chissà, se capita. È capitato. È capitata a Gloria, un po’ d’Uganda. Ed è capitato anche a noi, mentre leggevamo le sue parole. Così le pubblichiamo, come lei ce le ha mandate. Perché chissà se capita, un po’ d’Uganda anche per noi.

La redazione di Le Nius e associazione Mekané, curatrice di questa rubrica.

Seduta su uno scalino a fianco del reparto di chirurgia, ascolto il chiacchiericcio della gente e ringrazio che le urla di dolore di bambini ed adulti che ho sentito per tutta la mattina dovute al cambio delle medicazioni si siano finalmente interrotte: non le sopportavo più.

Me ne sono andata a mangiare alla guest house, ma essendo sola in questo momento a Kalongo la mia pausa pranzo è molto veloce e al mio rientro ho trovato sbarrato con il lucchetto il cancello di accesso agli uffici dell’amministrazione.

Questo da una parte mi conforta, considerato che in quegli uffici è custodito il mio Mac e che ieri è sparito un tavolo da fuori la nostra guest house, quello su cui Pippo scriveva i suoi racconti e da cui ammirava l’Oret in ogni condizione di tempo: sole, pioggia, tramonto, nuvole ed una mattina persino… nebbia!

Credo sia stato per non fargli sentire nostalgia di quella milanese che lo scorso anno lo accoglieva ad Expo quando arrivava la mattina presto. Ma soprattutto è sparita una delle papaye che stavano crescendo sull’albero in giardino. Ovviamente la più grande. Aniceto, il nostro cuoco, per sicurezza ha colto quella quasi matura oggi, così forse riusciremo a mangiarla, se non marcisce invece di maturare… qui non si sa mai!

Quindi da una parte sono contenta che il cancello sia chiuso, dall’altra ora devo aspettare qui seduta per almeno una mezz’ora ovvero fino a quando non torna qualcuno dalla pausa pranzo che dovrebbe durare un’ora, ma che spesso è abbastanza… elastica.

Chi se lo aspettava quando mi sono iscritta al MIHMEP (Master in International Healthcare Management, Economics and Policies) in Bocconi che sarei finita qui?

Qui è il Dr. Ambrosoli Memorial Hospital a Kalongo, nel nord dell’Uganda, un ospedale gestito dall’omonima fondazione. Ma qui è anche questo scalino fuori dalla chirurgia. Che, per la cronaca, è anche praticamente la mia principale postazione di lavoro se voglio avere una connessione internet decente.

ospedale uganda
Ecco Gloria sul suo scalino preferito

Il telefono prende solo sotto la statua di Ambrosoli al centro dell’ospedale. Dicono sia grazie a lui che invia il suo influsso benefico, io sospetto sia soprattutto grazie alla massa di metallo di cui è fatta la statua che attira le onde elettromagnetiche. Sia come sia, lì sotto la connessione internet è molto buona. Ma se ci si deve collegare dalle 10 in poi in un giorno di sole si rischia l’insolazione e quindi sono riuscita a trovare come alternativa questi due scalini.

In realtà, senza farlo apposta, questi scalini sono un buon posto di osservazione che mi permette di apprezzare davvero l’esperienza di lavorare in un ospedale: non avendo una laurea in medicina non posso stare in sala operatoria o in reparto a salvare vite, ma posso mettere a disposizione tutto ciò che ho imparato nei miei anni di lavoro e grazie a questo master per contribuire a migliorare sempre di più il servizio che viene offerto ai pazienti dell’ospedale dal punto di vista organizzativo, amministrativo e gestionale.

Farlo seduta a una scrivania dentro l’ufficio non sarebbe lo stesso perché mi perderei tante facce e tanti incontri: da questi due scalini invece vedo passare un sacco di gente!

C’è Smart Okot, il chirurgo che mi prende in giro e chiede se voglio andare ad assisterlo durante l’operazione visto che nei primi giorni della mia permanenza qui sono andata a fare foto in sala operatoria e vedendomi molto interessata e piena di domande (lo avevo avvisato che il massimo della chirurgia a cui avevo assistito era quella delle puntate del Dottor House!) ad un certo punto mi ha chiesto se volevo fargli da assistente. Ma poi immancabilmente ci ripensa: “Questa volta non c’è abbastanza sangue per una come te: non siamo riusciti a farti svenire o vomitare la volta scorsa, vieni domani!”. E il giorno dopo lo scherzo continua!

C’è Noa, la ginecologa giapponese, che è tornata da sola dopo essere stata qui qualche mese con alcuni colleghi della Croce Rossa Giapponese, e tra parti, cesarei e isterectomie è un po’ affaticata perché il suo “secondo” purtroppo non si è dimostrato al livello sperato e così scambiando due chiacchiere le allungo pure una barretta di cereali dalla mia scorta segreta (che ormai è agli sgoccioli) perché possa finire le operazioni in programma per la giornata.

C’è Sr. Santina, la generalessa del reparto di Maternità, che spinge la barella con altre due ostetriche per accompagnare una delle sue mamme per un cesareo. La saluto mentre entra nella sala di attesa, rispedisce indietro le ragazze che l’hanno aiutata ma lei rimane finché la donna non è portata in sala operatoria. Poi la vedo uscire di nuovo a passo di carica e tornare a dirigere il suo reparto.

E io dico una preghiera e tiro il fiato solo quando vedo una culla con sopra una zanzariera uscire di nuovo da quella porta: vuol dire che è andato tutto bene. È vero che al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital facciamo più di 350 cesarei in un anno, uno al giorno, il personale è preparato, ma è pur sempre un intervento e con le poche scorte di sangue che abbiamo il rischio che qualcosa vada storto c’è sempre.

C’è Chrisitine infermiera della sala operatoria che passava di qui tutte le mattine e tutte le mattine mi chiedeva un nuovo nome per la bambina che portava in grembo e che doveva nascere a breve. Non le piaceva nessuna delle mie proposte e infatti ha partorito domenica scorsa e ancora la bambina non ha un nome.

C’è Andrew il dottore responsabile del programma di HIV che passa a chiedere come sta il dott. Filippo e a raccontarmi com’è andata l’ultima visita di monitoraggio del progetto e così discutiamo un po’ di alcuni indicatori che vorrebbe utilizzare per migliorare il follow-up dei pazienti.

C’è Agnes, un’ostetrica a cui la settimana scorsa ho offerto una bustina della mia tisana ai frutti perché ne era incuriosita e questo piccolo gesto me l’ha fatta diventare amica.

E ci sono Jovine, Agnes, Beatriz, Bosco, Paul, Joseph che per una ragione o per l’altra devono andare in amministrazione e mi passano davanti e mi salutano. E così piano piano sono diventata una faccia nota nell’ospedale.

Nota anche a quei bambini curiosi o a quelli spaventati che si affacciano dall’angolo per guardare cosa faccio. Qualcuno più intraprendente viene vicino. Uno l’altro giorno si è pure sporto oltre lo schermo per guardare. Poi è scappato via! Quelli che sono qui da più tempo si sbilanciano in qualche “Apoio!” o “bye!”. Gli altri mi guardano di sottecchi, non sorridono quasi mai. E io, che non sono una di quelle bianche che adora essere attorniata da bambini vocianti, sorrido a mia volta, qualche volta faccio ciao con la mano, ma poi mi reimmergo in quello che sto facendo.

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Cure al Dr. Ambrosoli Memorial Hospital

Alle volte sullo scalino con me ci sono Watum o Rose.

Watum è il responsabile dell’ufficio di raccolta dati dell’ospedale: ogni settimana l’ospedale deve produrre un report in cui informa il Ministero della Salute del numero di casi di malaria, ogni mese deve riportare i numeri di pazienti ammessi e visitati ambulatorialmente, le diagnosi, le età, con sezioni speciali per capire come va il progetto di controllo dell’HIV e della tubercolosi, numero di parti, visite prenatali, vaccinazioni e tanti altri dati che permettano al Ministero di monitorare la situazione.

Raccogliere questi dati non è semplice in un sistema che basa ancora tutto su dei registri di carta. In cui spesso ci sono errori di trascrizione e non esiste un controllo incrociato. Sono tanti dati da recuperare, da mettere insieme, contare, controllare e poi infine da inserire in un sistema informatico online gestito dal governo. E con internet a singhiozzo a volte ci vogliono giorni per completare tutto il processo. Ora che sono qui io, Watum ne approfitta, si siede con me sugli scalini, sfrutta il mio modem e in un paio d’ore al massimo ha finito.

Rose è la responsabile delle Risorse Umane e ha la chiave! Mi apre il cancello e scherzando sulla mia velocità anche nel mangiare mi fa notare che qui non corre nessuno. Me ne ero accorta anche i primi giorni quando, appena arrivata, alle volte mi dimenticavo qualcosa in guest house e facevo una corsa, nel vero senso della parola, a prenderla. La gente mi guardava stupefatta: non come si guarda qualcuno che corre perché ci si chiede cosa sarà successo di grave per farla correre così, ma come si guarda un fenomeno strano che non ci appartiene, che viene da un altro orizzonte culturale troppo distante da noi anche per prenderlo in considerazione.

Certo, io sono una bianca, una straniera quindi non è strano che faccia cose bizzarre. Comunque ho smesso di correre! Quando entriamo nel suo ufficio la attende una lucertola gigante. E si scatena la caccia! Senza correre, ovviamente. Chiediamo l’aiuto degli uomini della contabilità, ma sono inutili ed alla fine facciamo scappare la lucertola dalla finestra con l’aiuto di Francisca la donna delle pulizie: girl power!

Anche con Rose spesso condivido il mio scalino: come responsabile delle risorse umane riceve e manda diverse mail e non riesce a farlo dalla sua scrivania quindi spesso sfrutta il mio accesso ad internet.

Il progetto che dovrebbe finalmente risolvere il problema internet è stato firmato e i lavori dovrebbero iniziare a breve. Non credo lo vedrò completato prima di andarmene, ma è bello sapere che forse avranno contatti con il mondo anche quando me ne sarò andata: è così importante che abbiano la possibilità di scambiare informazioni, trovare informazioni, essere in contatto con altre realtà come questa.

Abbiamo appena fatto in tempo a scacciare la lucertola che dal nulla si scatena un temporale. Qui è così: sei seduto tranquillo e stai parlando con il tuo dirimpettaio di scrivania e in un secondo non riuscite più a sentirvi sovrastati dal rumore della pioggia intensa che è amplificato dal tetto di lamiera. Poi smette con la stessa velocità con cui è iniziato e se, invece di star parlando con qualcuno sei concentrato sul tuo computer, a volte ti domandi se il temporale c’è stato davvero tanto il passaggio è fulmineo.

Devo dire che una delle cose positive di Kalongo, almeno per me, è il clima: in questi mesi c’è stata una temperatura abbastanza costante sui 26-27 gradi. In alcuni momenti si raffredda per via delle piogge, qualche giorno il caldo è più soffocante, ma non dura mai molto. Io festeggio il sole, loro giustamente festeggiano la pioggia.

Pioggia vuol dire acqua per i campi e vuol dire raccolto. E questo, in un’economia basata sull’agricoltura di sussistenza, è fondamentale. Perciò loro festeggiano la pioggia e si lamentano se per due giorni non c’è. Purtroppo pioggia vuol anche dire pozze di acqua stagnante dove le zanzare si riproducono. E se la zanzara è da sempre un insetto irritante e che disturba le nostre notti estive, qui zanzara vuol dire, spesso, malaria.

Nell’ospedale, dopo il picco dei mesi di maggio e giugno in cui abbiamo avuto quasi mille casi al mese di adulti e mille di bambini a cui è diagnosticata la malaria, ora siamo un po’ scesi, ma siamo comunque attestati su 700 adulti e 700 bambini al mese.

Purtroppo da quando è stato sospeso il programma di disinfestazione delle case i numeri sono risaliti vertiginosamente e l’epidemia ha colpito non solo i bambini, come succedeva in passato, ma ha coinvolto anche gli adulti che negli ultimi anni non sono stati più esposti al patogeno visto che le case erano disinfestate e quindi hanno perso le loro difese.

Anche tra il personale dell’ospedale ci sono spesso assenze dovute a malaria. Alle volte sono i figli ad essere ricoverati, come il bimbo di Marino, il responsabile della raccolta dati dei reparti, che negli ultimi mesi è stato qui almeno quattro volte. Ormai lo conosco, lui fugge dal reparto di pediatria e viene a cercare il suo papà: è scalzo e con la divisa in disordine, e la sua faccia è molto seria mentre si affaccia alla porta dell’ufficio e io, che sto uscendo per andare al mio solito posto, lo intercetto e informo il suo papà che lo riporta in reparto per l’ennesima volta.

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Il Dr. Ambrosoli Memorial Hospital di Kalongo

Una delle cose che posso osservare seduta sui miei scalini quando faccio una pausa dal lavoro sono gli outfit locali. Chi mi conosce sa che lo shopping è una mia passione e qui non è limitato, è proprio impossibile! Così osservo la moda locale ed ancora una volta mi domando come sono finita qui?

Insomma io che immaginavo di dovermi confrontare con “tacchettine” e borsa Micheal Kors mi ritrovo in pantaloni da field e sneakers come la più elegante tra gente che gira scalza, con al massimo le infradito o delle ballerine che andavano di moda da noi come minimo dieci anni fa.

Il mio zaino è guardato con sospetto da donne che sulla schiena portano bambini e trasportano il resto (ceste, bacinelle stracolme, fascine di legna, o borse intrecciate con il cibo per il parente malato) in bilico sulla testa! Davvero incredibile e da far invidia al portamento delle migliori ballerine o modelle.

Immaginavo completi Max&Co e Penny Black e di trovarmi ogni mattina in difficoltà per decidere l’abbinamento giusto. Qui mi trovo in difficoltà perché ho portato solo pantaloni per essere più comoda, ma qui, dalle bambine alle nonne passando per studentesse e infermerie a Kalongo le donne portano tutte la gonna.

Me lo fa notare sempre Rose dicendomi che è ora che ne metta una, ma un ragno sta risalendo la mia manica e io penso alla possibilità che con una gonna si avventuri su per la mia gamba e le dico che va bene così, anche se non mi integro del tutto il mio obbiettivo è sopravvivere…

In fatto di fashion devo dire che il Gomez la fa da padrone. Il “Gomesi” è un tipo di vestito da donna inventato da un sarto indiano, il “Sig. Gomesi” appunto, negli anni sessanta e da allora non è cambiato. È particolare perché ha le spalle a sbuffo e una larga cintura in vita un po’ come quella di un kimono, ma che cade davanti su un fianco. Le donne amano questo modello e lo usano soprattutto per andare in chiesa la domenica.

Domenica scorsa un gruppo di donne tutte con Gomez confezionato con lo stesso tipo di stoffa hanno portato le offerte durante la processione dell’offertorio. La messa è in Acholi ed io non capisco nulla. Il più delle volte mi capita di non riuscire neanche a pregare tanto sono irritata dall’orario (7.30 della domenica mattina!) e dai loro canti che perforano i timpani.

Ma poi arriva il momento della processione per l’offertorio: oltre ai soldi raccolti con le offerte durante la messa, ogni settimana un gruppo diverso di persone si organizza per essere protagonista di questo gesto. Una settimana c’è stato il gruppo della scuola tecnica e quindi hanno portato tavoli, sedie, persino un armadio. Questa settimana il gruppo delle donne indipendenti, un nuovo gruppo che si è da poco costituito di mutuo aiuto tra donne di Kalongo e dintorni, hanno portato ceste con fagioli, melanzane, il detersivo, le scope, la farina, le uova. E le hanno consegnate al parroco che poi si occuperà di distribuirle ai poveri.

La concretezza e la semplicità del gesto di chi, anche avendo poco, condivide questo con i più poveri passando attraverso le mani del sacerdote mi commuove ogni volta perché mi testimonia la vera carità.

Uno dei mantra di Filippo è: “Si impara fino alla bara!”. Ed ha ragione. Imparo la pazienza qui.

Ad essere paziente con loro aspettando che i dati siano contati e ricontati e che finalmente siano pronti a condividerli con me. Ad essere paziente con me stessa quando, come in questi giorni, l’emicrania non riesco a farla passare e una stanza buia non c’è, almeno finché non cala la notte.

Imparo a fare attenzione ai dettagli.

Sui dati che non quadrano mai, ma anche sulle facce: quelle che vedo ogni giorno dal mio scalino, quelle nascoste nei reparti, quelle di chi attende pazientemente il risultato di un esame o di essere visitato da un medico. Facce che mi dicono meglio di molti numeri come sta andando e dove sono i problemi più grossi. Facce che mi testimoniano e mi aiutano a rialzare la mia quando la tentazione di guardare solo a quello che non va mi prende.

Imparo ad accettare come è fatto il mio cuore.

Perché, anche se avevo tutti i presupposti per non affezionarmi a questo posto (è Africa e avevo detto: “Africa mai più!”, è un villaggio sperduto e avevo detto: “Solo le capitali!”) il mio cuore ha come casa il mondo e di conseguenza dovunque vado quel pezzo di mondo diventa la mia casa, almeno per un po’, e allora si prende un po’ anche del mio cuore.

E non posso farci proprio niente.

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