Maternità a rischio: quando una donna è in lotta con se stessa8 min read

2 Ottobre 2014 Genere -

Maternità a rischio: quando una donna è in lotta con se stessa8 min read

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Diventare donne adulte non è una passeggiata, e buone madri nemmeno. Nell’Italia di oggi la maternità a rischio non è solo un problema ginecologico, ma un concetto più esteso, derivante da un intreccio di fattori psicologici e sociali, che contribuiscono a creare la percezione che le donne hanno della maternità.

Molte donne italiane esprimono perplessità o timori riguardo alla maternità. Secondo i dati del 2013, il numero di nuovi nati nel nostro Paese ammonta a 515 mila, un numero ancora più basso del minimo storico del 1995. Secondo le statistiche UNECE del 2010, l’età media in cui le donne italiane hanno il primo figlio è 30,2 anni, con una media di 1,42 figli per donna.

Maternità a rischio
@josemanuelerre

La rabbia e la paura

La maternità a rischio, prima che nei dati Istat, esiste nella mente delle donne, più che per egoismo o cinismo, per una serie di motivi in buona parte condivisibili.

Il caso più eclatante è quello delle donne che soffrono di disagi psicologici. Costoro sanno di correre il rischio di non avere un rapporto sereno con i propri figli. La paura è quella di non essere in grado di proteggere il figlio, prima di tutto da sé.

Si parla spesso di depressione post partum, ma la depressione può insorgere anche durante la gravidanza, se ci sono fattori di rischio come precedenti familiari o nella storia personale, e la carenza di sostegni sociali. Si ritiene che si presenti in un 10% delle maternità e che fino ad un 20% delle donne manifestino qualche sintomo depressivo.

Ovviamente, il blocco da ansia di protezione vale ancor di più per le vittime di violenze o abusi, dove mariti e conviventi sono un pericolo reale, non solo per le potenziali madri, ma anche per eventuali figli. Secondo l’UDI, solo nel 2013 si son verificati 130 casi di femminicidio.

Al di là dei casi limite, sono le politiche sociali italiane a sottoporre la maternità a rischio. Tutti conoscono il comportamento dei datori di lavoro, la scarsità di servizi, di risorse e incentivi per le madri in Italia. Per cui se una donna sa di non avere alla spalle una famiglia di supporto e le risorse economiche necessarie, è facile preda di una sorta di ansia da prestazione.

Inoltre, la società stessa mette il concetto di maternità a rischio a causa del modo semplicistico in cui tende a raccontare l’esperienza della maternità. Si propugna spesso la maternità come dovere: se non hai figli non sei una vera donna, a cui si aggiunge l’ansia da orologio biologico.

Non manca nemmeno lo spot pubblicitario della maternità come piacere: non puoi perderti una cosa così bella e unica, dato che siamo tutti uguali e non esiste niente di meglio per te. Spesso queste due visioni si fondono confusamente nelle pressioni di parenti e conoscenti, in un bizzarro connubio di raggiante buonismo masochista.

Come se la dimensione della maternità non potesse esprimersi, seppur in modo meno diretto e viscerale, anche in molti altri ambiti, tra cui quello creativo, o nell’accudimento altrui. Credo perciò che, per molte, mettere la propria maternità “a rischio” risponda a un sano bisogno di mettere in discussione la maternità per come viene spesso comunicata, cioè come una specie di irrinunciabile altalena tra idillio stucchevole e sacrificio medioevale.

Ogni persona ha la sua storia e i suoi tempi. È malsano procreare per ansia, per senso di colpa, per imitazione, o per altri motivi sbagliati.

Quante madri confondono l’amore materno con il desiderio di possesso per colmare un proprio senso di vuoto? Quante fanno un figlio per esorcizzare il proprio senso di frustrazione e sentirsi potenti? I loro figli saranno le loro vittime.

Essere madre significa rinunciare in parte a essere figlia, e se si è subita qualche penalizzazione nel percorso verso l’età adulta, ci si può sentire derubate della propria adolescenza e spensieratezza, e vincolate alla responsabilità. Dalla maternità non si torna indietro. Un figlio ti cambia la vita, in modo irreversibile, e questo può spaventare chi ama in modo particolare la propria libertà, o coltivare molti interessi.

Tutti questi conflitti interiori possono avere una proiezione sul piano corporeo, attraverso la percezione della gravidanza come malattia o il terrore di diventare brutte e grasse, che si riflette in atteggiamenti estremi: dall’ossessione per la magrezza e l’aspetto esteriore, a una specie di autoabbruttimento sacrificale, secondo cui diventare madre coincide con lo smettere di essere femminili.

Tuttavia per cogliere appieno la bellezza della vita ci vuole anche un po’ di quella sconsiderata follia che fa fare i salti nel buio, e che fa parte della sua poesia. Non si può avere sempre tutto sotto controllo, però meglio affrontare la maternità con un atto di coraggio e di fiducia nel domani, che con inconsapevolezza.

Troppo spesso si fa coincidere l’età adulta con una serie di tappe esteriori: il lavoro, il figlio … Ma queste non bastano in sé a rendere risolta una persona e a farne una buona madre. Raggiungere la maturità significa arrivare a un certo grado di saggezza e di pace interiore.

Alla luce di queste considerazioni, cosa succede se rimani incinta e ti sembra che la vita non ti dia il tempo per fare il tuo percorso? Forse quei chilometri mancanti potrai percorrerli con tuo figlio, crescendo insieme, ma avrai bisogno di sostegno.

La domanda che ogni futura madre in difficoltà si pone è: sarò in grado di proteggere mio figlio? E, se ancora cerca se stessa, si chiede: quali certezze potrò trasmettere?

Quando l’automedicazione e l’affetto delle persone care non bastano è meglio chiedere aiuto per te e, soprattutto, per chi dipende da te. L’aiuto può esistere sotto varie forme, alcune più note (come la psicoterapia), altre meno.

Per questo segnalo la realtà di Arché: un’organizzazione non profit di Milano, Roma e San Benedetto del Tronto, che si occupa di mamme e bambini con disagio psichico e sociale, anche attraverso un’ospitalità temporanea che li accompagni verso l’autonomia.

Continua a leggere: Maternità a rischio, la storia di Vale

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Nata milanese, naturalizzata scozzese, morta veneziana, risorta in riva al Piave. Con alle spalle 12 traslochi e 2 lauree (lingue e arti visive), l'ex poetessa della classe non ha ancora capito cosa farà da grande, intanto si interessa di quasi tutto, a fasi. Qui è amante di cause perse, tipo comunicare.
Commento
  1. Giuseppina

    Maternità è un argomento profondo, forte ed è particolarmente difficile se a rischio. Colei che è “ madre” sa che madre vuol dire innanzitutto accoglienza a dare luce, calore, protezione. tenerezza. La maternità però non deve essere intesa come possesso esclusivo che può ostacolare la crescita del figlio, ma dovrebbe essere sentita anche verso tutti bambini per aiutarli, se necessario anche materialmente, a crescere. Purtroppo oggi il senso della vita si fonda sul possesso, sul denaro e il problema dell’accoglienza verso la maternità è un problema grave. Possono nascere difficoltà durante l’equilibrio precario di una donna proprio nella fase di intensa trasformazione. La donna non deve procreare con ansia perché la società glielo impone o per orgoglio, ma quando sente di avere la capacità di riconoscere e gestire i propri sentimenti e di aver raggiunto una adeguata preparazione per affrontare un periodo così delicato. Potranno allora essere superati “disagi psicologici per precedenti famigliari o carenza di sostegni sociali”, descritti nel caso di Valentina. Vale si salva perché una associazione la spinge a vivere e la aiuta a ricucire il rapporto con la figlia. La società dovrebbe favorire la nascita e la continuità delle associazioni che si interessano e si prendono cura di tanti casi come quello di Vale.

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