Afran: il jeans come espressione di identità10 min read

12 Giugno 2016 Cultura -

Afran: il jeans come espressione di identità10 min read

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Francis Nathan Abiamba in arte Afran @afran.it
Francis Nathan Abiamba in arte Afran @afran.it

L’arte contemporanea, questa sconosciuta. Chi l’avrebbe mai detto che con dei jeans vecchi, usati, magari anche stracciati e stinti, fosse possibile creare un’opera d’arte? Eppure, è proprio quello che fa Francis Nathan Abiamba, in arte Afran, artista camerunense che ha scelto il jeans come mezzo espressivo per veicolare messaggi forti, che parlano di identità superficiale e profonda, di ricerca di sicurezza e di libertà.

Pur essendo un materiale così concreto e comune (e in parte proprio per questo motivo), il jeans viene investito da Afran di significati simbolici, che manifestano le lacerazioni dell’uomo contemporaneo: espressione di sé versus omologazione, libertà versus sicurezza, essenza versus esteriorità. Lasciamoci spiegare da Afran stesso come, attraverso il jeans, si possa esprimere la propria identità nel mondo complesso in cui viviamo.

Iniziamo con qualche nota biografica: so che sei nato in Camerun e che hai fatto diversi spostamenti prima di approdare in Italia. Puoi parlarci del percorso che ti ha portato qui?

Io sono del Camerun, ma mio papà era della Guinea Equatoriale e a un certo punto sono voluto andarci per riscoprire le mie radici; sono rimasto in Guinea per due anni e nel 2008 ho esposto lì la mia prima mostra personale. Dopo di che sono venuto con mia moglie a vivere in Italia. Ho lavorato anche in Spagna per un progetto, a Madrid, ma poi ho sempre lavorato qui in Italia, dove vivo con la mia famiglia.

Perché, Afran, hai scelto proprio il jeans come mezzo espressivo della tua arte? È una scelta molto particolare nel panorama artistico attuale.

Volevo raccontare i problemi identitari, partendo da me stesso e dal fatto che sono nato in Africa, dove la società di oggi è investita da profondi cambiamenti. I giovani sono molto attratti dalla cultura occidentale e americana e fanno fatica a riconoscersi nelle tradizioni che sono sempre state loro. Con la mia arte volevo raccontare tutti questi tormenti dei giovani contemporanei, mostrandone l’identità più superficiale, cioè quello che noi scegliamo di far vedere alla gente: per questo motivo ho scelto il vestito, rendendolo metafora dell’identità più superficiale, quella che avremmo potuto sceglierci se fossimo stati noi al posto di Dio. Adesso c’è la chirurgia plastica, ma è una scelta un po’ estrema. Con il vestito si può scegliere il modo in cui vorresti che gli altri ti vedessero: identità superficiale, ma che comunque deriva da una scelta molto profonda.
Tra i vari materiali, poi, ho optato proprio per il jeans perché non era il vestito con la V maiuscola; forse un po’ l’ho scelto perché al liceo decoravo i jeans dei miei compagni personalizzandoli, e quindi mi è sembrato il materiale perfetto per raccontare proprio il mondo dei giovani, il mondo pop, con il tessuto che più li rappresenta.

Regina del pop @afran.it
Regina del pop @afran.it

Comunque, volevo dei materiali comuni, che usiamo quotidianamente, come il jeans e le cinture, oggetti che però io decontestualizzo, dandogli una serietà non quotidiana. Questo è un po’ il paradosso che sorge quando si lavora con oggetti del mondo della moda, comunemente visto come gioioso e leggero, ma io ne faccio emergere anche le dinamiche meno leggere, tant’è che le mie sculture hanno sempre un’espressione un po’ urlante, profonda e qualche volta anche spaventosa.

Come il tuo “Destino siamese” con due teste urlanti. Perché questa figura così scissa?

Destino siamese @afran.it
Destino siamese @afran.it

Perché ha un impatto molto forte e perché si ricollega addirittura alle figure etniche della mia cultura di origine. Io sono di cultura Fang, le cui sculture hanno influito tanto nel primo ‘900 europeo, per esempio nelle figure allungate di Modigliani. Quindi gioco anche con questo aspetto, riprendo delle figure etniche ricollocandole nel mondo contemporaneo, perché volevo anche rivisitare alcune figure della mia cultura, ma dando loro un seguito: cosa sarebbero oggi se fossero resistite nel tempo? Io sono nato in Africa e sono sempre vissuto là fino a sette anni fa, adesso vivo qui e non ho a disposizione tutti i materiali che usavano i miei antenati per fare la loro arte: cosa posso fare io, Afran, in quanto artista? La mia arte si ferma qui? In un mondo in cui sta cambiando tutto, non posso più rimanere attaccato agli oggetti fisici, ai materiali; devo quindi ancorare la mia arte al concetto e non alle cose fisiche. È qui che mi ricollego all’apparire: il jeans mi serve per dire che nella nostra società l’apparenza ha un potere enorme che spesso va al di là dei valori profondi, perché conta più quello che è visibile di quello che si è realmente. Vado ad indagare nella mia tradizione quali sono le motivazioni per certi riti tradizionali e per certi balli, non per forza il cosa si fa o quali materiali si usavano; miro all’essenza per poterli aggiornare in un qualunque contesto.

Mi ha molto colpita l’espressione usata dalla curatrice Stefania Carrozzini nell’introduzione alla tua mostra “Afran – Welcome to freedom”, quando ha parlato di “jeanscape umano” per esprimere l’ampia gamma di emozioni e di sentimenti veicolati dalla tua arte.

Certamente, anche perché io uso dei vestiti usati, perché il jeans ha una sua storia personale che mi affascina tantissimo: per questo diventa più bello quando è vissuto, oggi per esempio va di moda stracciato. Quindi il mio jeans, che è passato tra le mani di persone vere e che è stato vissuto da queste persone, viene riempito di vita e anche di una certa spiritualità, il che si ricollega alla mia arte tradizionale che è comunque sempre stata molto spirituale e legata riti specifici, non è mai stata legata all’estetica e basta.

Come riesci a conciliare la cultura africana tradizionale con quella occidentale, altra tua fonte di ispirazione?

Non posso negare l’influsso che ha avuto su di me l’arte classico-occidentale, come per esempio le avanguardie occidentali. Ho studiato in Camerun in un liceo artistico sostenuto da una ONG italiana e poi ho fatto due anni di accademia nata come succursale dell’Accademia Carrara di Bergamo, da dove quindi arrivavano i professori. Sono stato impregnato nei principi dell’arte occidentale, ma non voglio ostentare nulla: io sono il risultato di tutti i percorsi che ho fatto e quando devo trattare un tema non mi pongo il problema di fare arte occidentale o africana, mi lascio andare in modo spontaneo. Il fatto di voler ostentare le proprie origini mi sembra che sfoci nel mondo dell’apparenza troppo evidente e non nell’essenza. Io non faccio arte per cercare di soddisfare le opinioni che gli altri potrebbero avere su di me, perché reputo che la mia interiorità sia molto più complessa.

Dai molta importanza al tema della ricerca dell’essenza e dell’identità: quanto “Afran” c’è nelle tue opere?

Autoritratto @afran.it
Autoritratto @afran.it

Non vorrei entrare troppo nei dettagli, ma io ci sono per forza nelle mie opere: trattano tematiche legate all’identità, non a caso, ma perché io ho dei problemi di identità e sentivo la necessità di esprimerli. Sono il quinto figlio di otto e non mi sono mai sentito il più amato in casa; avevo quindi già i miei complessi identitari, non sapendo come collocarmi all’interno della famiglia, e queste sono cose che ti porti per il resto della vita, anche inconsciamente. È ovvio che non puoi distaccarti del tutto dalle tue opere.

E in questa ricerca identitaria si inserisce anche un tentativo di catarsi, di liberazione dalle cinture (reali e metaforiche) che ci imprigionano?

Decisamente sì. Per esempio nell’opera “Welcome to freedom” ho provato ad evidenziare il fatto che nella nostra società l’uomo è in perpetua ricerca di sicurezze, ma in realtà più pensa di mettersi al sicuro più scopre delle problematiche dovute alla condizione di sicurezza nella quale si è voluto mettere, come se l’uomo si fosse rinchiuso da solo in una gabbia. Quindi, quella che doveva essere una soluzione diventa poi il problema.

Welcome to freedom @afran.it
Welcome to freedom @afran.it

“Welcome to freedom” rappresenta un uomo che non è vestito ma è fatto di vestiti; pur essendo coperto al massimo, si sente nudo e copre la sua nudità e quindi tutti gli sforzi che l’uomo compie costantemente al posto di metterlo al sicuro gli creano spesso delle altre problematiche. La cintura che ci mettiamo per tenerci al sicuro diventa la nostra prigione. Per elaborare questo concetto mi sono rifatto alle teorie di un sociologo che stimo molto, Zygmunt Bauman, che sosteneva che le nuove tecnologie in qualche modo arrivano ad ingabbiarti nonostante tutte le libertà che ti offrono. Non sto a giudicare se questo è buono o cattivo o se è bello o brutto, ma bisogna comunque far emergere la complessità di queste tematiche.

Mi puoi parlare di una tua opera che ti sta particolarmente a cuore?

“Scheletro di niente”: sono delle grucce messe assieme a formare uno scheletro di un rettile preistorico. Ho fatto un assemblaggio semplicissimo con oggetti comuni, una gruccia dopo l’altra e sembra veramente uno scheletro di un dinosauro o di un animale preistorico. Mi piace l’idea che nell’assemblaggio c’è pochissima lavorazione ma viene fuori in modo prepotente la sintesi del pensiero, quindi l’osservatore non si limita soltanto a guardare l’estetica e la lavorazione, ma riflette su questo animale misterioso. L’avevo chiamato Nessie come il mostro di Loch Ness, che è una leggenda metropolitana, appunto per aumentare l’aura di mistero della composizione.

Scheletro di niente @afran.it
Scheletro di niente @afran.it

Un’ultima domanda: si parla del fatto che a breve Afran parteciperà a Pitti Uomo. Puoi darci una piccola anteprima dell’installazione che realizzerai per l’occasione?

La mia installazione sarà composta da una tigre che sta per azzannare una bistecca o un prosciutto. Questa tigre avrà sempre la mia impronta tipica del denim, mentre il prosciutto sarà fatto di stoffe come jacquard, lino, broccato e altri tessuti storici fagocitati dall’entrata del denim nel mercato del tessile. Questo è il messaggio a livello più commerciale, che riflette anche le aspettative degli sponsor che vogliono vedere la forza del jeans. Il messaggio invece più legato al mio percorso artistico ha a che fare con il fatto che in questo mondo globale le minoranze hanno sempre meno voce e questo sistema sta diffondendo una monocromia, un’uniformizzazione culturale dove le minoranze sono come divorate.

Mi rifaccio ancora una volta a Zygmunt Bauman, che compara l’identità a un vestito: è un’identità fluida, perché questo vestito si può cambiare a seconda delle necessità o dei desideri. La tigre che sta azzannando la bistecca fatta di tessuti, classici o etnici che siano, rappresenta quindi anche un sistema che si sta verificando a qualsiasi livello, da quello politico a quello religioso, fino a quello sociale: ad esempio, oggi la religione cristiana è un po’ in bilico tra il volere adattare la Chiesa alla modernità e il desiderio di mantenerla statica sulle sue radici. Anche a livello politico la nascita di partiti come il M5S che hanno tutto un altro modo di funzionare, cercando un nuovo approccio con l’uomo per scardinare le logiche tradizionali, ha portato anche i partiti tradizionali a capire che non si può rimanere statici, rifiutando ostinatamente queste nuove tendenze. Insomma, stiamo ormai mettendo in questione un po’ tutte le sicurezze che avevamo coltivato con il tempo, le gabbie che ci eravamo creati.

 

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Amante dell’arte, dei viaggi, dell’ultimate frisbee e del genere fantasy, cerca di guardare il mondo con lo sguardo limpido e curioso dei bambini, sulla scia di Bruno Munari: “Conservare lo spirito dell’infanzia dentro di sé per tutta la vita vuol dire conservare la curiosità di conoscere, il piacere di capire, la voglia di comunicare”.
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